L'ennesimo, inutile, spot elettorale

Anni fa alla domanda sull’utilità del bonus degli 80 euro che il governo Renzi introdusse nel 2014 risposi, in un articolo, che “la risposta potrebbe essere 'sì': 960 euro rappresentano quasi uno stipendio in più, per gl’impiegati (ad esempio) degli studi professionali, il cui salario raramente supera i 1.400 euro lordi al mese. Ma, a livello di sistema, sarebbe assolutamente inutile, poiché non avrebbe ritorni né sull’occupazione né sui consumi”.

Perché “utili ma”? Perché a livello personale un aumento salariale di 960 euro all’anno non è da poco, poiché su 24.000 euro lordi varrebbe circa il 5% del netto in busta paga ma a livello di sistema queste difficilmente si trasformerebbero in consumi quanto più in risparmio per sopperire a imprevisti poiché l’aumento, che nel 2015 aveva riguardato 11,6 mln di lavoratori – circa la metà della popolazione attiva – non si presentava come un incremento strutturale di salario ma come un bonus riassorbibile in eventuali miglioramenti a livello di remunerazione.

Così è stato, come se ne è accorto quasi un milione di italiani che l’anno successivo ha dovuto restituire la somma incassata in quanto il reddito percepito, per via di aumenti contrattuali o di componenti reddituali straordinarie, è risultato eccedente a quanto previsto come limite dalla legge, così come gli oltre 170.000 che si sono visti obbligati a restituire in toto o in parte il bonus incassato mese per mese poiché il reddito annuo era troppo basso per poter ottenere la detrazione prevista.

Alla luce dei fatti quella degli 80 euro è stata una mossa populistica e insussistente, ottima a livello di immagine, poiché una detrazione spalmata su dodici mesi che innalzava, anche sensibilmente, la busta paga permetteva una diversa percezione, a livello di singolo individuo, rispetto a 960 euro incassati in una volta, a livello di conguaglio fiscale, ma inutile da un punto di vista economico se non per innalzare la spesa pubblica di oltre 6 miliardi senza avere nessun vero beneficio poiché questo bonus non impattava minimamente sulle aspettative di miglioramento reddituale e di crescita del potere d’acquisto.

Ora, avvicinandosi le elezioni, ecco che viene annunciata una nuova tornata del bonus, che vede, però, un ampliamento prospettico della platea, per l’innalzamento del limite reddituale per accedere in forma completa alla detrazione a 24.600 euro e per l’accesso in forma ridotta (fino all’azzeramento) da 26.000 a 26.600 euro.

Perché questa modifica?

Perché è stato calcolato in vista del rinnovo del contratto dei dipendenti pubblici, i quali, senza questo intervento normativo, sarebbero rimasti esclusi dal diritto al bonus Renzi dopo aver percepito l'aumento salariale e, in vista di una tornata elettorale, una cosa simile sarebbe stata controproducente.

Se qualcuno ci avesse fatto caso, infatti, l’accento su questi 80 euro al mese, ripetuto come un mantra, è sempre stato posto in concomitanza delle elezioni, così fu nel 2014 con le Europee così è oggi con quelle per il rinnovo del Parlamento italiano prossime venture, andando a mostrare come la strategia di Renzi si inserisca in quello che la teoria economica chiama “ciclo elettorale”.

Questo, secondo gli economisti che per primi si interessarono al fenomeno, è caratterizzato da decisioni di politica economica messe in atto in concomitanza di scadenze elettorali per influenzare i cittadini nell'esprimere le loro preferenze di voto, supponendo che gli stessi dimentichino le passate manovre economiche a seguito dei nuovi provvedimenti (la c.d. Illusione finanziaria).

Per queste ragioni la coalizione di governo che risultasse vincitrice delle elezioni attuerebbe, all'inizio del mandato, manovre economiche restrittive o impopolari che dovrebbero essere ben presto dimenticate dai cittadini per poi adottare, successivamente, in prossimità delle nuove elezioni, manovre maggiormente espansive, sperando di ottenere il favore dell'elettorato.

A voler essere maligni questo è esattamente quello che sta avvenendo oggi. Invece di razionalizzare il sistema fiscale, di ridurre la spesa e di tagliare le imposte, magari partendo da quelle sull’energia che pesano ben più di 80 euro al mese su famiglie e imprese, si preferisce un’altra operazione di facciata che non porterà, credibilmente, alcun beneficio a livello di domanda interna e che, per la struttura stessa della detrazione fiscale, avrà le stesse problematiche di quella precedente.

Il clima di “campagna elettorale continua” che, però, vige nel Paese non permette che un ciclo politico possa svilupparsi in tutta la sua struttura, dovendosi scontrare con continui appuntamenti elettorali e finendo per sprofondare nell’ipotesi di modello opportunistico, come ipotizzava Nordhaus.

L’Italia, in definitiva, non ha bisogno di bonus o di elemosine ma di un intervento strutturale dal lato della spesa e del prelievo fiscale, volto ad alleggerire il prelievo e semplificare il più possibile il sistema.

Dopo la cura recessiva fatta solo di ulteriori aggravi fiscali del governo Monti che ha depresso la domanda interna acuendo la crisi economica che perdurava da oltre tre anni e distruggendo, così, circa un quarto del comparto industriale del Paese e cinque anni di transizione caratterizzati da un’attività quasi frenetica tra luci e ombre, sarebbe ora che qualcuno mostrasse la volontà politica di portare avanti le tre riforme che veramente potrebbero dare una svolta al Paese: quella del fisco e del lavoro, al di là di bonus di facciata, e Jobs Act – per ridare competitività al sistema e portare beneficio vero a livello di potere d’acquisto agli italiani – e quella della giustizia (ma di quest’ultima non è questa la sede opportuna per parlarne).