La prossima bomba sui mercati

È recentissima la notizia che Tesla Inc abbia superato la capitalizzazione in borsa di Ford, così come è di poche settimane fa l’Ipo con il botto di Snapchat che è volato a una valutazione di oltre 24 miliardi di dollari. Non male per una società che produce dei costosi giocattoli e che non ha mai realizzato un solo dollaro di utile (poco importa il risultato positivo nel Q3 2016, primo dopo anni poiché già il Q4 si è concluso con una perdita quasi sei volte superiore) e di un’app per scambiarsi messaggi autodistruttivi che in due anni ha registrato perdite per quasi 900 milioni di dollari.

Questi dati, sicuramente ben lontani dai risultati di big del settore tecnologico come Google o Facebook, per non parlare di Apple o Microsoft, ad esempio, non sembrano influenzare i trend borsistici che, invece, proseguono al rialzo segnando dei continui upside portando la capitalizzazione di queste aziende alle stelle.

Dietro ai rialzi c’è sicuramente una scommessa sul futuro, almeno nel caso di Tesla, ma è molto più credibile che la ragione di quotazioni che non siano minimamente correlate con i risultati di bilancio sia da ricercarsi altrove e, precisamente, nella situazione attuale dei tassi d’interesse a livello mondiale.

La caduta dei tassi, anche in campo negativo, voluta dalle politiche monetarie delle banche centrali ha fatto sì che il mantenimento di capitali in forma liquida diventasse decisamente costoso così come lo stesso trend ha schiantato il settore obbligazionario, quello cosiddetto del fixed income, portando le emissioni di debito, sia delle aziende sia degli stati con rating “investment grade” (quindi considerati solvibili e a rischio medio-basso), a pagare tassi molto bassi che, tra oneri di gestione e imposte, portano spesso il rendimento netto degli investitori sotto zero, per questa ragione la ricerca di rendimento, soprattutto da parte di fondi e di gestori patrimoniali, si è orientata verso settori a più elevato rischio, come l’azionario.

Negli anni passati, in verità, molta attenzione era stata posta sui titoli detti high yield, cioè obbligazioni a basso rating e alto rendimento, oppure verso titoli di debito senior o subordinati, soprattutto nel settore bancario, ma la compressione dei tassi, che anche qui ha effetto, e la crescita del rischio per quei titoli che avrebbero potuto essere oggetto di bail in ha portato ad avere un rapporto rischio/benefici sempre più basso fino a rendere sconsigliabile qualunque tipo di investimento preferendo tipologie di titoli più liquidi e, quindi, di facile vendita in caso di ribassi improvvisi o rischi sistemici crescenti.

Ecco che si palesa una corsa all’azionariato andando a gonfiare i listini con nuovi capitali e una particolare attenzione verso le Ipo o le imprese che, almeno nella percezione comune, rappresentano una scommessa sul futuro o risultano di tendenza.

Il gioco è già stato visto in passato, i capitali affluiscono gonfiando i titoli finché una rialzo sui tassi o una modificazione della percezione del mercato spingeranno a liquidare le partecipazioni generando un drawdown improvviso.

In aggregato, ovviamente, non si sta parlando di una catastrofe, gli investimenti in titoli azionari non creano valore e non lo distruggono, semplicemente allocano le risorse secondo le aspettative degli investitori quindi un ribasso non significa che “sono stati bruciati x miliardi”, come titolano solitamente i giornali, ma significa che qualcuno ha liquidato la sua partecipazione al capitale di rischio. I fondi di venture capital e i grandi azionisti, quindi, non subiranno alcun danno da questa correzione di borsa ma i piccoli investitori potrebbero veder letteralmente volatilizzati i risparmi impiegati non avendo né i mezzi informativi né quelli operativi per poter operare il disinvestimento nelle giuste tempistiche.

Ora, probabilmente, non stiamo parlando di un qualcosa che avverrà domani, almeno finché le quotazioni supporteranno le linee di credito finora concesse a queste aziende, ma se continuassero a non produrre un dollaro di utile e, anzi, ad accumulare perdite per quanto tempo investitori e istituti di credito potranno supportarle?

Già la fine del XX secolo aveva affrescato come la speculazione sui titoli tecnologici, prima ancora che le aziende del settore, le cosiddette Dot.Com, iniziassero a produrre utili, gonfiò a dismisura i listini fin dalla quotazione di Netscape nel 1994 per poi giungere al crollo tra il 2001 e il 2002, perfettamente rappresentato in un episodio della 13° stagione dei Simpsons, in cui le azioni, prima scambiate a cifre da capogiro, arrivarono a valere pochi centesimi o, addirittura, nulla a seguito del fallimento della società quotata.
Sembra che la storia nulla abbia insegnato e la ricerca spasmodica di rendimento ha spinto a gonfiare una bolla che, prima o poi, esploderà e qualcuno si farà del male.