L’importanza delle elezioni del prossimo presidente della Repubblica

A guardare indietro c’è di che restare a dir poco sorpresi: non ce ne siamo quasi accorti, per colpa del Covid che non vuol passare, ma sette anni fa eravamo in una Repubblica, ora siamo in un’altra. Meglio detto: eravamo in una fase della Repubblica, ora siamo sempre nella stessa Repubblica ma in un’altra fase. E l’unico momento di continuità, di stabilità, per non dire di razionalità, è stato il Quirinale.

Mica è la prima volta che si verifica, questa soluzione di continuità: pensiamo solo a quel che fu il 1992-94; ma la circostanza non fa che rafforzare l’impressione di sorpresa. Nel senso che in quel biennio si passò in modo anche traumatico da un ordine politico ad un altro; ugualmente, negli ultimi sette anni, quel che nacque allora è stato relegato alla soffitta, tra le cose antiche. La differenza è che il processo di transizione non è ancora finito. Ecco perché le elezioni del successore di Sergio Mattarella sono così importanti: ci vogliono mano salda e idee chiare, altrimenti si rischia di finire fuori strada.

Mattarella ha trovato una situazione, nel 2015, in via di liquidazione. Renzi, allora l’uomo forte, così forte non era. Era piuttosto la sfrontatezza che supplisce alla mancanza di autorevolezza, il contrario della forza tranquilla di un Mitterrand. Fallì clamorosamente su un referendum e il Partito democratico ancora non si è ripreso del tutto. Il centrodestra entrò, proprio in occasione dell’elezione di Mattarella, in una crisi anch’essa non risolta: il suo leader naturale – anzi: il suo demiurgo – smise di esserne l’asse portante ma senza che gli attor giovani emersi nel frattempo siano riusciti a guadagnarsi il proscenio. Il Movimento Cinque Stelle, la forza che pareva emergere come portatrice di nuove istanze e volti nuovi si va sciogliendo dopo due defatiganti esperienze di governo ed una terza al limite dell’irrilevanza, come neve al sole.

I sondaggi, che non amiamo ma qualche volta danno l’idea di cosa stia accadendo, fotografano da un anno almeno una sostanziale parità: quattro partiti in un fazzoletto di consensi. Nessuno perde del tutto, nessuno riesce a vincere. Doveva essere, la seconda fase della Repubblica, quella della democrazia decidente: finisce con l’essere la democrazia più bloccata di tutti i tempi. Rimpiangiamo il Fattore K ed il dinamico blocco dell’alternanza alla guida dei governi di una quarantina d’anni fa.

Mattarella ha gestito il passaggio dal leaderismo al sovranismo al populismo cercando di trasmettere, alla classe dirigente in formazione, un piccolo quanto sostanziale principio: ci sono le regole, se uno le segue non sbaglia. Il fatto è che le regole, la Costituzione, piuttosto che impararle la suddetta classe dirigente ha preferito tentare di stravolgerle. Più facile dare una martellata che leggersi un tomo di diritto costituzionale.
Renzi, da parte sua, non è riuscito nell’impresa. I Cinque Stelle hanno riscoperto, all’uopo, la loro anima più populista: siamo arrivati così al referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari. Ancora non abbiamo capito fino in fondo il guaio che abbiamo fatto, ma almeno in questo il concorso di colpa è veramente generale: il M5S, quanti hanno approvato la norma in un referendum (e sono davvero tanti, nessuno di loro domani si lamenti), il Pd, la Lega, Fi, FdI e quanti si son schierati per la conferma della riforma solo per esigenze di bottega, o per infingardaggine.

Alla prova del governo, che poi è l’essenza della politica, hanno fallito tutti e non è un caso. Lasciamo stare la pandemia, è un evento straordinario e non si possono gettare croci né gridare ai miracoli. È la normale azione di governo che è mancata, la progettualità di un disegno purché sia, la direzione da indicare al Paese. Tutto è stato messo in discussione (Europa, atlantismo, umanità dell’accoglienza) e poi tutto è stato rimangiato. In tutto questo il Colle ha dovuto fare, ben oltre quello che è emerso sui media, da elemento compensatore, supplente, equilibratore. Una bella fatica.

Il suo non è stato certo il semipresidenzialismo di fatto che qualcuno adesso evoca, senza capire bene cosa dice, ma un continuo e costante rimettere in moto un motore sempre imballato, ingolfato dalla gasolina in eccesso finita nei pistoni per il piede troppo pesante del guidatore. Non meravigliamoci se, all’idea di una rielezione, ha risposto pronto con un diniego.

Insomma, Mattarella ha dovuto esercitare l’arte della maieutica con una classe dirigente o troppo vecchia, o troppo giovane per apprendere l’arte del reggimento dello Stato. La nomina di Draghi, alla fine, è la solenne bocciatura che ha dovuto impartire all’una come all’altra. Il suo bilancio personale è altamente positivo: nonostante si sia aggiunta persino la variabile indipendente e devastante del Covid, non siamo usciti di strada. Anzi, abbiamo rimediato anche qualche bella figura. Ma la richiesta, proveniente prima di tutto dalla società civile, di una sua riconferma sta lì a testimoniare un fallimento. Quello delle promesse della Seconda Repubblica.