La formazione sacerdotale non è una terapia ma accompagnamento esigente

È di storica memoria l’immagine del giovane o della giovane che bussa alla porta di un seminario o di una comunità religiosa e inizia il suo processo vocazionale. Oggi tutto è più “raffinato” (meno male) e insieme complesso.

Il desiderio vocazionale di seguire il Vangelo secondo forme di totale donazione e impegno, anche pubblico, vengono accompagnati ancor prima che la persona acceda al passo formativo iniziale.

Questa attenzione è fondamentale: mi trovo, non di rado, a ripetere che le realtà carismatiche, seminariali o religiose, non hanno un compito direttamente terapeutico – vado in comunità e verrò aiutato a conoscere me stesso e risanare le ferite della mia famiglia – perché non ne avrebbero gli strumenti. Talvolta qualche accompagnatore più ingenuo, in buona fede, invia giovani con gravi problematiche di personalità per un cammino vocazionale, nel presupposto (errato) che qualcuno (la comunità) avrà “cura” di lui.

Nel tempo accade, invece, che le difficoltà strutturali della persona si amplificano in un percorso che ha dei ritmi impegnativi, dagli orari giornalieri alla convivenza con altri, e allora ci si rende conto che il formatore/la formatrice e la sua équipe non possono dedicare tutte le energie personali e comunitarie ad un unico formando… Da qui l’importanza di iniziare a conoscere la persona che ha un desiderio vocazionale ancor prima che la si accolga all’interno.

Lo dico anche per alleggerire il carico di colpe che talvolta seminari e comunità si assumono nei confronti di una persona, per non essere stati in grado di risolvere i suoi disagi. E’ vero, piuttosto, che un ambiente di fede, insieme alle opportunità che il vivere insieme secondo dei valori offre, possono favorire una maturazione, una crescita umana e psicologica del giovane o della giovane in cammino. Ma questo è un effetto “secondario” e non un compito primario.

Quali sono, però, oggi, i criteri e le difficoltà per poter valutare una vocazione in germe? Il rettore, il formatore, la formatrice, di quali competenze si devono dotare?

Non è mai stato facile questo incarico, sia chiaro, ma oggi la complessità del nostro tempo, l’accesso alla rete che precocizza le “conoscenze” e le esperienze dei giovani rende necessaria e non solo accessoria un’accurata scelta e competenza di quanti sono poi incaricati di accompagnare le diverse tappe di una vocazione.

Dunque un primo aspetto irrinunciabile è che il cammino di conoscenza di sé e delle proprie risorse e limiti sia stato affrontato da chi lo propone ad altri. Non si tratta di rendere ultra-tecnico né di psicologizzare il discernimento vocazionale, ma di evitare – come purtroppo ancora accade talvolta – che siano addette alla formazione persone formate secondo modelli e linguaggi ormai inattuali, e rimaste ferme lì. Un giovane o una giovane (se non di età, di cammino) dovrebbe poter parlare delle esperienze vissute, delle fantasie, delle paure e delle speranze senza temere di scandalizzare chi le accompagna per poi essere mandate via per aver espresso il proprio punto di vista o pezzi di storia personale.

Accogliere non vuol dire approvare. Accogliere vuol dire che quando parlo l’altro può capirmi, può assumere la mia prospettiva, può immaginare cosa io abbia vissuto o stia vivendo, senza giudicarmi in modo parziale. È necessaria tale disponibilità, altrimenti la persona si rivela in modo settario, impara cosa può dire o non dire, cosa comprometterebbe la sua prosecuzione in seminario o in comunità e si asterrebbe dal condividerlo. I giovani sono capaci di cogliere le attese del formatore e della formatrice e sono ancora più capaci di adeguarsi per sentirsi benvoluti e accolti.

Solo nella misura in cui c’è un clima di fiducia che favorisce trasparenza e autenticità – certamente da costruire nel tempo – la valutazione può avvenire in modo realistico ed essere veramente un servizio a favore della persona, per valorizzarla al meglio: sta camminando verso una pienezza spirituale e umana? Dove può crescere ancora? Quali margini di miglioramento ha? Quali sono le sue risorse?

Ritorno sull’aspetto che accogliere non vuol dire accettare tutto incondizionatamente.

La formazione, infatti, ha bisogno di punti solidi di riferimento, di un ideale esigente, perché i giovani non vogliono trovare lo stesso clima che lasciano: desiderano un incontro che cambi la loro vita, desiderano misurarsi con le loro capacità nei piccoli e grandi obiettivi: svegliarsi presto, imparare a pregare, mantenere un ritmo di vita, provarsi in esperienze nuove, rinunciare a qualche abitudine o comodità. Non bisogna aver paura di portarli in alto! In alto, però, non coincide con l’essere duri, autoritari, intransigenti, in alto vuol dire saperli affascinare con la Parola e la misericordia che la attraversa, e con la possibilità tutta umana di allargare i confini di sé e del proprio cuore.

Il Papa ci ricorda che insistere solo sui limiti, avere uno sguardo sempre e solo critico, anziché indicare strade di felicità non aiuta (cf. Amoris Laetitia n. 38). L’ideale esigente va proposto insieme alla bellezza di un percorso in cui l’amore si espande e la persona raggiunge profondità impensabili.

La formazione iniziale, perciò, ma anche quella successiva, è l’arte di integrare la verità della persona – a cui farà un gran bene sentirsi dire, con franchezza, che può farcela o non farcela, che quella è la strada per lei, o non lo è, dove può migliorare – con la testimonianza di una vita (i formatori come testimoni) non perfetta, ma piena. Avere accanto chi “ce l’ha fatta”, con tutte le fatiche e le cadute di ogni cammino è di grande incoraggiamento per chi inizia.

Il Papa, nelle parole che seguono dell’AL, al n. 40, si riferisce al matrimonio, ma certamente il suo pensiero si può estendere ai percorsi vocazionali: “Abbiamo bisogno di trovare le parole, le motivazioni e le testimonianze che ci aiutino a toccare le fibre più intime dei giovani, là dove sono più capaci di generosità, di impegno, di amore e anche di eroismo, per invitarli ad accettare con entusiasmo e coraggio la sfida del [dono di sé]”.