Crescita e stabilità: due parametri da bilanciare per il benessere del Paese

Se la più alta carica europea, il presidente della Commissione, affermasse che il patto di stabilità, insito nell’accordo di Maastricht istitutivo dell’UE, sia stupido sembrerebbe un controsenso, vero? Ebbene questo avvenne a inizio secolo, quando Romano Prodi, allora alla guida della Commissione Europea, lo disse senza troppi giri di parole. Oddio, volendo vedere potrebbe sembrare una dichiarazione quasi di stampo elettoralistico visto che uno degli stati meno ligi ai dettami del Trattato è sempre stata l’Italia per via dell’alta mole di debito pubblico accumulato e la scarsa crescita che, già da qualche anno, affliggeva la nazione ma così non fu. L’allora governo Berlusconi bis era saldamente al comando del Paese (e Silvio Berlusconi è l’unico premier italiano nella storia che sia riuscito a concludere una legislatura a palazzo Chigi, quella aggiungerei) e l’affermazione rientrava in un discorso ben più ampio che mirava a sottolineare le debolezze dell’Europa che non poteva, infatti, essere definita spendacciona e non aveva nemmeno le risorse per poter investire realmente nella crescita di un’area che, adesso, si può ben dire mediamente in stagnazione poiché dall’introduzione dell’euro ad oggi è cresciuta mediamente del 1,1% annuo.

Sì, è vero, in questo ventennio abbondante si sono dovute affrontare diverse crisi, dal crollo delle dot.com del 2000 (l’euro era già in vigore dal 1999 anche se, fisicamente, la circolazione inizierà solo nel 2002) alla bolla sub-prime tra il 2007 e il 2009 che portò al fallimento di Lehman e, a cascata, di diverse banche tra cui anche Royal Bank of Scotland e Fortis dopo il take-over di ABN Amro (con la lunga scia nella crisi di Monte dei Paschi di Siena ma questa è un’altra storia), solo due anni dopo arrivò la crisi dei debiti sovrani che, per poco, non riguardò anche l’Italia e, infine, il biennio pandemico appena passato e la crisi bellica in Ucraina odierna.

Questi fatti non sono dovuti, ovviamente, all’applicazione del patto di stabilità ma la capacità di reazione del sistema economico europeo è stata pesantemente penalizzata dai parametri, fin troppo rigidi, introdotti dal lato del contenimento della spesa e del debito pubblico almeno fino alla pandemia che, pare, abbia spinto la necessità di riscrivere le regole per permettere, in futuro, di fronteggiare al meglio le crisi che, tempo per tempo, si incontreranno. Già la previsione del piano Next Generation EU può essere considerata un punto di discontinuità importante che ha sottolineato la consapevolezza che non possa esistere stabilità senza crescita ma, qui va sottolineato, non è possibile intraprendere un percorso sostenibile di crescita senza stabilità e la vera difficoltà si incontra nel dover gestire un nuovo sistema che vada a bilanciare questi due parametri l di là della tendenza alla spesa eccessiva di alcuni Stati membri, tra cui l’Italia se servisse ricordarlo, con la rigidità nella visione di altri che, però, nascondono diverse criticità dietro l’apparente virtuosismo nei bilanci pubblici.

Di qui e dalla consapevolezza dell’interconnessione tra le economie di tutti gli Stati membri nasce l’intenzione di riformare quel patto di stabilità e crescita che fu pensato in un altro secolo (nel 1992) e in ben altra situazione economica. Non ha stupito nessuno, infatti, la dichiarazione del commissario all’economia Paolo Gentiloni quando, qualche giorno fa, ha illustrato le prime proposte di modifica dell’accordo che devono puntare a mettere sullo stesso piano la stabilità e la crescita economica in quanto intrinsecamente legate e che i parametri di riferimento, deficit massimo al 3% del PIL e livello obiettivo del rapporto debito/PIL al 60% abbiano la necessità di essere ricondotti a valori più realistici. Dalle sue parole si evince che mentre il limite al 3% dell’indebitamento ha avuto il grande merito di “segnalare ai governanti che il denaro non è gratis”, facendo suo il motto introdotto da Heinlein e reso celebre da Friedman TANSTAAFL (There ain’t no such thing as a free lunch), l’obiettivo dell’indebitamento al 60% del PIL non ha avuto successo perché irrealistico e laddove non ci sia un percorso realistico ogni regola diventa inutile. Da qui l’idea di allungare il periodo di “normalizzazione” della finanza pubblica in caso di risposta a crisi esogene e di indicare una sorta di obbligatorietà di un trend in diminuzione del debito senza obiettivi irragionevoli nel breve tempo.

Sembra poca cosa, leggendo questa sintesi fatta con l’accetta, ma in verità si tratta di un concetto rivoluzionario all’interno dell’UE che, finora, ha sacrificato la crescita all’inseguimento di un traguardo lontano e non raggiungibile, salvo spostare le necessità finanziarie delle nazioni da una partita all’altra, cosa che è visibile osservando il livello totale di debito (pubblico + privato) di ogni Stato membro. Qualcuno obietterà “cosa c’entra il debito privato?”. Non è, ovviamente, una domanda stupida perché una certa vulgata ha sempre visto come “pericoloso” solo il debito pubblico dimenticando che il debito privato va a colpire la fonte primaria dell’alimentazione della macchina pubblica (i redditi) e che una crisi di esso, conseguente a un rialzo repentino dei tassi o da una crisi economica che vada a far crescere il tasso di disoccupazione, si riflette immediatamente sul settore creditizio che, all’aumentare della rischiosità, deve diminuire le esposizioni causando un cosiddetto credit crunch che potrebbe essere aggravato anche da una crisi di liquidità delle banche cosa che bloccherebbe la “cinghia di trasmissione” dell’economia, tra allocazione dei capitali e sistemi di pagamento obbligando, come già successe in passato, a un intervento pubblico che porti lo stato ad accollarsi questo debito facendo crescere il debito pubblico (sono, ad esempio, i casi dell’Islanda o dell’Irlanda).

Per questo, probabilmente, non basterà solo una riforma del patto di stabilità ma si dovrà anche toccare la mission della BCE, associando alla salvaguardia del livello dei prezzi anche il mantenimento degli obiettivi di crescita, e credibilmente anche la struttura delle leggi di bilancio di molti stati, passando dai criteri “di cassa”, come quella italiana, a criteri “di competenza” come avviene per le aziende, in maniera da distinguere la spesa corrente dalla spesa per investimenti pluriennali che, magari, prevede un ritorno ben più corposo ma che, stando ai criteri in essere oggi, difficilmente potrebbero essere portati avanti. Diciamo che si parla di uno scenario non certo di domani e neanche di dopodomani, la via, però sembra tracciata e, forse, si vedrà un’Unione Europea meno rigida e più ricca in un futuro prossimo. Si potrebbero aprire le scommesse, quindi.