Congedi di paternità: i limiti della misura in Italia

I congedi di paternità nascono per promuovere una parità di genere nelle responsabilità tra i genitori per i compiti di cura e come azione di sostegno al lavoro femminile.

I paesi scandinavi sono stati tra i primi ad adottare tale iniziativa. In Norvegia i papà possono beneficiare di quasi un anno di congedo con 46 settimane pagate al 100% o 56 settimane all’80% 12 delle quali obbligatorie. Nella vicina Svezia ogni genitore ha diritto a 12 mesi di congedo da condividere, ma sono obbligatori almeno due mesi a testa.

Oramai già da tempo molti paesi della Comunità europea – visti gli effetti positivi generati dai paesi scandinavi che per primi li hanno testati – procedono nell’attivare tale misura con modalità differenti da paese a paese. La Francia per esempio punta a raggiungere 28 giorni di congedo di cui 7 obbligatori. In Inghilterra i papà possono usufruire di una o due settimane di congedo a patto che abbiano maturato almeno 26 settimane di lavoro consecutivo. La Spagna ha recentemente adottato una legge che garantisce 16 settimane. Paesi che comunque vantano da anni avanzate politiche familiari e di sostegno alla nascita e alla genitorialità.

In Italia con la nuova Legge di Bilancio 2021, i giorni di congedo per i papà saranno aumentati da 7 a 10, saranno obbligatori e verranno remunerati al 100%. In realtà tale provvedimento politico, pur essendo un importante segnale culturale, viene ad essere limitato negli effetti che produce, in quanto si innesta in un contesto di politiche familiari ancora poco strutturato.

L’Italia infatti, oltre che essere carente di vere e strutturate politiche familiari, ha due problemi che non riesce a risolvere: la denatalità ed il basso numero di donne presenti nel mondo del lavoro. Le donne non fanno figli perché costano sacrifici, e quando li fanno tendono pian piano ad uscire dal mondo del lavoro perché non si sentono sostenute nei carichi di cura. Nello scorso dicembre l’Istat certificava che su 101 mila posti di lavoro persi per il 98% erano donne.

Due sono i motivi che non mi convincono sugli effettivi vantaggi che produrrà questa manovra. La prima è che non è un provvedimento che interessa tutti i papà in Italia: i beneficiari saranno solo i papà che godono di un rapporto di lavoro dipendente, quindi rimarrebbero fuori tutti i lavoratori autonomi, gli imprenditori e i disoccupati. La platea del mondo del lavoro è oggi infatti molto complessa e diversa da 30 anni fa. Nel 2017 i lavoratori indipendenti costituivano il 23,2% degli occupati (stimati in 5 milioni 363 mila), incidenza molto più elevata rispetto alla media Ue (15,7%). Tra loro il 68,1% era un lavoratore autonomo senza dipendenti (3 milioni 652 mila). Tutte persone che restano escluse dai benefici dei congedi di maternità e paternità. Il congedo di paternità per questi ultimi non contribuirà a cambiare la vita, né a loro né alle madri dei loro figli. Ciò rischia di amplificare le distanze sociali e il malcontento.

Il secondo motivo è che questi provvedimenti nel resto d’Europa si inseriscono in un contesto sociale in cui già esistono e sono consolidate le politiche familiari e di sostegno alla genitorialità come l’assegno per figlio, i servizi all’infanzia e tante altre gratuità e vantaggi di cui i genitori beneficiano per il solo fatto di esserlo.

In Italia invece l’estensione dei giorni dei congedi di paternità non si innesta in un sistema di sostegno alla genitorialità già consolidato e strutturato, ma è nei fatti una misura isolata e “una tantum”.

Piuttosto che suddividere in tante voci di spesa differenti gli importi destinati alle famiglie, forse sarebbe più opportuno ed efficace potenziare al massimo le forze e l’impegno economico per l’avvio di una grande riforma strutturale per le famiglie, quale è quella dell’assegno unico. In questo modo si consentirebbe il godimento dei benefici a tutti i genitori, a prescindere dal loro status lavorativo, si concederebbe una maggiore serenità economica alle famiglie per un arco di tempo di 18 anni, e soprattutto, concedendo un bonus ulteriore a partire dal terzo figlio, si invoglierebbero le coppie a mettere al mondo più figli, con la serena consapevolezza di essere sostenuti economicamente nel loro compito genitoriale.

Emma Ciccarelli, vice presidente del Forum nazionale delle Associazioni Familiari