Alfie Evans: un condannato a morte

Ricordo nei vecchi film Western l’immagine del cavallo azzoppato e l’eroe di turno che, per non farlo soffrire perchè irrimediabilmente condannato all’infermità, lo faceva morire per pietà con un colpo esploso alla testa. I progressi anche nel campo della medicina veterinaria fanno si che oggi un animale in tali condizioni possa sopravvivere dignitosamente se adeguatamente trattato. Ma il concetto della morte data per pietà nel nome del non far soffrire mi fa rabbrividire,  da medico innanzitutto e da cittadino poi  soprattutto se rapportata ai giorni nostri ed applicata alla persona umana. E’ il caso del piccolo Alfie Evans che rischia di essere trattato come poc’anzi ho ricordato e cioè di morire per pietà.

Si tratta di fatto di un condannato a morte e non nel senso teorico della parola ma nel vero senso concettuale del termine. Di un condannato dove il braccio della morte è stato sostituito da una corsia dell’Alder Hey Children’s Hospital, dove una nutrita schiera di poliziotti sorvegliano il piccolo Alfie come un pericoloso detenuto a che non riceva se non in minima parte le visite concesse e dove l’Alta Corte deve deciderne a breve la data della morte. Perché di questo si tratta di eseguire una sentenza di morte attraverso una sedazione prodromica profonda prima di staccare la spina.

Allora viene naturalmente da chiedersi alcuni perché: perché non viene rispettato il diritto dei genitori, in nome di quella parola magica che è l’autodeterminazione, di decidere della vita del loro bimbo quando questo diritto viene assicurato al contrario allorché  si chiede di por fine alla vita? Perché viene negata la possibilità di trasferire il piccolo Alfie all’ospedale Bambin Gesù, struttura d’eccellenza in campo europeo, che si è offerta di prendersi cura  del piccolo Alfie in un’ottica  di speranza di miglioramento?

A questo punto di fronte a cosa ci troviamo? È triste dirlo ma dinnanzi ad una medicina malata che investe di più nella medicina dei desideri che non in quella dei bisogni , dove vale più il profitto che l’integrità della persona, dove forzando l’etica medica degli operatori sanitari in alcuni casi viene consigliata più la medicina demolitiva che non quella ricostruttiva perché quest’ultima costa di più e rende meno in termini di budget, dove alcune volte si preferisce non rianimare un neonato con patologie che magari se trattate, in termini economici a lungo termine, costano di più che non la sua morte. E poi di cosa ci meravigliamo? Degli scandali dove alcuni medici vengono coinvolti in vicende dove il “dio denaro” la fa da padrone? O che il suicidio assistito sia di fatto consentito anche nel nostro Paese come così a breve lo sarà anche l’eutanasia?

Allora questa cultura di morte, che subdolamente ed in maniera strisciante si sta facendo strada nel nostro modo di pensare perché pilotata a senso unico da forti correnti di pensiero contra vitam nel considerare l’altro non come una persona da curare o della quale prendersi cura ma piuttosto come fonte di guadagno, ci porta inesorabilmente alla vicenda del piccolo Alfie che certamente in termini economici rappresenta una dispendio di risorse ma che altrettanto indiscutibilmente crediamo meriti a che la sua vita venga rispettata in quanto persona e con lui anche i suoi genitori che, in maniera ammirevole e commovente nonostante la loro giovanissima età, stanno combattendo una battaglia che in nome di un civiltà autentica e giusta ci auguriamo possano vincere.

Stefano Ojetti – vicepresidente nazionale Associazione medici cattolici italiani (Amci)