Nella vigna del Signore non c’è spazio per l’invidia

Non è così semplice entrare nella testa e nel cuore di Dio, ovvero il padrone di questa parabola. Non è semplice per molti motivi:

Il primo è quello educativo. Tutti siamo cresciuti con l’idea del merito. Tutti ancora siamo molto legati al fatto che se siamo i primi, perché più belli, più attivi, più produttivi, più potenti e più intelligenti meritiamo più degli ultimi, meno belli, meno attivi, meno produttivi, meno potenti e meno intelligenti. Volenti o nolenti siamo stati così educati e così crediamo sia la forza della nostra vita morale: più ci comportiamo bene più “lavoriamo nella vigna del Signore” (specialmente per noi sacerdoti o religiosi quella di lavorare nella vigna del Signore è stata una metafora urgente e necessaria per spingerci ad impegnaci il più possibile nella nostra azione pastorale) più meriteremo la ricompensa nel regno dei cieli.

Il secondo è quello economico. Un padrone che esce a chiamare gli operai per lavorare nella vigna in 5 momenti diversi non sa organizzare il suo lavoro, la produzione sarà orribile e soprattutto perché dare a tutti la stessa paga sia a quelli che hanno lavorato tanto sia a quelli della undicesima ora. E’ proprio sbagliato, specialmente nella Palestina uscire poco prima che faccia notte, vuol dire pagare qualcuno per non fargli fare nulla.

Il terzo è quello religioso. Nelle religioni si ancora ci si distingue per che ha più fede, per chi prega di più, per chi fa più elemosine e via dicendo. Questa parabola ci dice che è Dio a cercarci indipendentemente delle nostre preghiere e dalle nostre elemosine. Pensata sempre alla preghiera del pio israelita, che spesso è anche la nostra: “ti ringrazio Signore che non sono come gli altri” Lc 18,10-14). Pensate invece a Gesù che si sofferma sull’orante dell’ultimo posto che dice: “signore abbi pietà di me peccatore”.

In altre parole viene completamente smontato il nostro pensiero di merito. Se il padrone della vigna è Dio e questo è chiaro fin dalla prima Alleanza (Is 5,1-ss) chi paga i lavoratori e li sceglie è solo il padrone e per di più vuole dare a tutti quelli dell’alba che hanno sopportato il peso della giornata e a tutti quelli dell’undicesima ora che hanno fatto solo la presenza.

Se facciamo caso alle ore in cui il padrone esce troviamo tutte le ore canoniche della preghiera, l’alba, l’ora terza, l’ora nona, l’undicesima ora. Sembra proprio che questo padrone sia un Dio fedele che non ha cuore la produttività ma il fatto che tutti, anche gli ultimi possano entrare a lavorare nella vigna e li prega, li esorta ad andare. Addirittura questo Dio non si vergogna di pregare perché tutti possano entrare, quasi una liturgia delle ore in cui si mette a pregare perché tutti, ma proprio tutti possano entrare nella vigna. Proprio come quel padre buono che esce a pregare il figlio perché l’altro figlio era andato via di casa e poi è ritornato e per poterlo convincere gli dice tutto quello che è mio è tuo (Lc 15,31-32).

Anche quelli che potrebbero risultare invisibili nelle logiche umane del merito, della produttività e dell’impegno. Quelli che abitualmente tutti noi non vediamo. Questo meraviglioso padrone li vede. Li vede e, in realtà, non risparmia loro una tiratina di orecchi dicendo perché ve ne state senza far niente? E la risposta è: nessuno ci ha presi.

Chi sono questi nessuno se la parabola parla di un padrone che esce in tutte le ore canoniche per chiamare gli operai lavorare nella sua vigna. Tento un’interpretazione che mi coinvolge moltissimo. Quei nessuno siamo noi. Perché, in realtà Dio li vede, noi non li vediamo.

Siamo proprio noi a non scommettere sui lavoratori dell’undicesima ora. Essi non valgono, sono considerati ultimi, spesso sono scartati. Siamo noi che ci consideriamo lavoratori dell’alba e ci riteniamo meritevoli di un po’ di più. Se ci consideriamo meritevoli e quelli dell’ultima ora prendono quanto noi, noi diventiamo invidiosi. Invidiosi di un fratello che un Dio Buono tratta come noi. Come un padre anche terreno cerca di trattare con equità i suoi figli. Come figli spesso ci scandalizziamo perché il padre ci tratta come gli altri. Ma che Dio strano un Dio che fa piovere sui giusti e sugli ingiusti!

Siamo proprio noi che non vediamo ad un palmo dal naso perché l’invidia ci acceca. Dante mette gli invidiosi nel purgatorio (forse aveva qualcosa da farsi perdonare dato il fatto che gli altri peccati capitali li mette all’inferno) ma li mette in una zona grigia e in ombra per di più con gli occhi cuciti di filo di ferro, quindi incapaci di vedere. Giotto, nella cappella degli Scrovegni a Padova, raffigura l’invidia con l’immagine di una donna che ha una lingua lunghissima che sulla punta si trasforma in una testa di serpente che rivolgendosi morde gli occhi della stessa e quindi l’acceca. E’ molto lontano dalla verità chi per invidia è accecato.

Siamo noi che confondiamo il nostro giudizio con quello di Dio, che costruiamo un nostro regno lontano dal Regno di Dio, siamo noi che scartiamo e rendiamo ultimi colo che per Dio non lo sono. Un cattivo educatore, un cattivo economo, un cattivo religioso, ma desideroso che tutti entrino nella vigna, metafora del regno e simbolo di un amore incomprensibile, folle, a volte oltraggioso del nostro buon senso, ma che ha a cuore noi e quelli che noi consideriamo, scarti e ultimi.