Good morning Brexit: inizia la fase due

L'unico dato sicuro, passata la mezzanotte, è che il Regno Unito ha cessato ufficialmente di far parte dell'Unione europea con la consapevolezza che la vera partita, quella in cui davvero il premier Johnson e i Tories che, come lui, la Brexit l'avevano voluta a tutti i costi, si giocheranno il futuro politico loro e del Paese, inizierà a partire da ora. Di tempo per i festeggiamenti ce n'è stato relativamente poco: i britannici hanno dato solo a dicembre la fiducia praticamente totale al leader conservatore, archiviando in un colpo solo la questione dell'addio all'Ue e la fin troppo traballante opposizione dei laburisti a guida Corbyn, a conti fatti i veri sconfitti di tutta la vicenda Brexit. Più di Theresa May, il cui accordo è stato bocciato tre volte dal Parlamento, e più di David Cameron, che diede il là al processo con il referendum che, inaspettatamente, strappò di un soffio il sì dei sudditi di Sua Maestà. Ora, terminato il sollievo per la prima estenuante fase di trattative andate in porto e la scadenza (ultra-prorogata) del 31 gennaio rispettata, si apre la fase di divorzio, quella vera.

Sul tavolo di Downing Street di dossier ce ne sono in abbondanza, e fuori dalla porta c'è un elettorato che il proprio mandato ai Tories l'ha concesso a sottinteso patto che risolvesse una questione arrivata a limiti estremi anche per il popolo britannico. Entro dicembre prossimo, ovvero prima che il Regno Unito si tiri fuori in modo definitivo dal mercato comune dando l'ultimo colpo di forbice ai suoi legami quasi cinquantennali con Bruxelles, Johnson dovrà definire perlomeno il grosso delle questioni, risolvere il nodo dell'accordo commerciale e soprattutto definire tutti i punti rimasti in sospeso: dell'addio all'Europa sembra che, dopotutto, non dovrà risentire il progetto Erasmus +, messo in dubbio qualche settimana fa e con tempi a disposizione relativamente brevi (meno di un anno) per definire una partnership accademica destinata a proseguire ma, probabilmente, a condizioni diverse di quelle utilizzate finora.

Tema cruciale, forse passato più inosservato di quanto avrebbe dovuto, perlomeno per il ruolo simbolico che gioca per la Gran Bretagna, quello degli spazi di mare destinati alla pesca: con la Brexit, e stando a una legge presentata dallo stesso Johnson, Londra riprenderebbe il controllo dei propri mari e la facoltà di decidere se far entrare pescherecci stranieri oppure no, accontentando i vari movimenti “fishing for leave” (attivi fin dai giorni del referendum) ma rinunciando, di rimando, ai tratti marittimi comunitari dove le reti britanniche raccolgono buone quantità di pesce azzurro e altre specie ittiche. La partita dovrà essere risolta nell'ambito delle trattative sulle future relazioni commerciali, tenendo ben presente che Bruxelles appare tutt'altro che disposta a rinunciare alla logica delle acque comuni, anche a ridosso delle coste anglosassoni.

Sul fronte interno, oggi come ieri (inteso come il 2016, anno della fatidica decisione pro-leave), il governo Tory rischia di trovarsi in mano un Paese sostanzialmente diviso. Il freno lo morde in particolare la Scozia della combattiva Nicola Sturgeon e del suo Scottish Party, nuovamente in procinto di rivendicare la propria vocazione europeista sovrapponendo il tema a una nuova, possibile richiesta di IndyRef, con l'obiettivo di tornare a sfoggiare la sola Croce di Sant'Andrea come bandiera nazionale e riagganciarsi al Continente. Da capire quando e come arriverà la richiesta a Londra, che nel frattempo dovrà fare i conti anche con l'irrequietezza degli unionisti nordirlandesi, non troppo propensi ad allontanarsi da Bruxelles alle condizioni attuali, definite troppo incerte pur con la revisione del backstop e la doppia via adottata sul confine, con permanenza di Belfast nell'ambito del territorio doganale britannico ma mantenendo gli obblighi dell'unione doganale europea.

In sostanza, da oggi Johnson e i suoi dovranno riuscire in una decina di mesi a mettere a posto tutti i tasselli del mosaico, cercando di rispettare le promesse fatte agli elettori e di non arrivare ai ferri corti né con Bruxelles né con i parlamenti interni, rischiando di ritrovarsi, alle soglie del 2021, con un nulla di fatto sui grandi temi. Sarebbe la conclusione più amara, a fronte di un matrimonio durato quasi cinquant'anni senza mai una vera e propria unione. Di sicuro senza mai una vocazione davvero europeista da parte della Gran Bretagna, staccata dal continente fisicamente, culturalmente e in altri aspetti sostanziali. I britannici ora aspettano. Se la tempesta sia passata o meno ce lo diranno i mesi che verranno.