Il teatro che respira: quando il virus non ferma la cultura

Il direttore generale della Fondazione Teatro della Toscana, Marco Giorgetti, spiega a Interris.it la strategia del dopo chiusura: "Il lavoro continua per essere pronti quando la pandemia sarà sconfitta. Ma le professionalità siano tutelate"

Sono molti i sacrifici che la pandemia ci ha imposto. Alcuni per far fronte alla violenza del virus, altri per un’azione preventiva, volta a scongiurarne la progressione incontrollata. Costringendo, in molti casi, ad accantonare i più semplici gesti quotidiani, ma anche a rinunciare a trascorrere dei momenti all’insegna della cultura e della bellezza. Gli investimenti del settore dello spettacolo, fra i più colpiti dal lockdown, erano stati significativi. Strumenti e risorse per tornare a lavorare in presenza, per garantire sicurezza e distanziamento sociale nelle sale teatrali e in quelle cinematografiche. Con risultati significativi considerando l’esiguo numero di contagi veicolati attraverso i luoghi in questione. Percentuali comunque insufficienti a tenerli fuori dall’ultimo Dpcm, che ne ha imposto la chiusura in nome della tutela della salute pubblica.

Un teatro alternativo

E se ora intere categorie professionali tornano a chiedere assistenza, c’è anche chi ha deciso di seguire l’unica strada possibile in tempo di pandemia: “Continueremo, finché possibile, a lavorare per il nostro pubblico – ha raccontato a Interris.it Marco Giorgetti, direttore generale della Fondazione Teatro della Toscana -. Al pubblico facciamo vedere che il teatro c’è, va avanti e sarà pronto a ripartire non appena la situazione lo consentirà”.

 

Direttore Giorgetti, dopo il periodo di lockdown si rendono necessarie nuove chiusure per contenere la curva dei contagi. Il settore dello spettacolo come affronta le nuove disposizioni?
“La situazione si va chiarendo di giorno in giorno. Lo scenario migliore che noi possiamo immaginare è di poter continuare a lavorare dentro i teatri, per usare il tempo da qui all’annullamento dei provvedimenti, naturalmente perché la pandemia sarà stata domata, per preparare, per provare e farci trovare pronti al dopo. E’ l’unica possibilità che abbiamo, qualora non ci sia un altro lockdown generalizzato. Il teatro è vivo. I lavoratori li abbiamo lasciati al lavoro, senza applicare alcuna cassa integrazione, per consentire lo svolgimento di prove, preparazione e tutto quello che serve per farci trovare pronti nel momento in cui riapriremo. Con questo noi diamo lavoro, continueremo a darlo anche ai cosiddetti ‘scritturati’. E utilizziamo al meglio un tempo difficilissimo, perché ci manca il rapporto col pubblico, ma che in qualche modo può essere messo a frutto per sperimentare al meglio la nostra esperienza”.

C’è poi la questione pubblico…
“Altra finalità fondamentale è mantenere un canale aperto con il pubblico, cercando di far capire ai nostri appassionati e non che noi ci siamo, che siamo pronti a uscire con nuove esperienze. E quindi tenere questo filo interattivo, attraverso uffici preposti, direttamente con il pubblico”.

Proseguire di fatto l’attività teatrale è uno sforzo sostenibile senza l’apporto dello spettacolo e, quindi, del pubblico?
“Sì, certo. E’ sostenibile perché il nostro lavoro è sempre fortemente collegato al preparare gli spettacoli. Lo spettacolo è solo la punta dell’iceberg. Andare in scena è il risultato di un lunghissimo, appassionato e complesso lavoro che coinvolge tutta la struttura. E’ sostenibile perché lo Stato ci riconosce il Fus, i soci fondatori hanno confermato i loro contributi, sposando una linea di mantenimento di profilo alto. Sarebbe più facile dire ‘il teatro non si può fare’ e chiudere. Ma agire così, oggi, non far lavorare le persone, significherebbe riaprire fra sei mesi, non fra due o tre. Il teatro ha bisogno di un tempo per realizzarsi”.

Subito dopo le nuove chiusure è stato varato un nuovo decreto incentrato sui sostegni alle attività. In concreto, cosa chiede il settore dello spettacolo? C’è l’apporto dello Stato?
“Per quanto riguarda le nostre strutture, i teatri pubblici, il sostegno c’è ed è forte e convinto. So che lo Stato sta lavorando, come fondamentale che sia, a forme di sostegno dei tecnici e degli scritturati. E questo è un appello che io lancio continuamente anche al nostro governo: dobbiamo coprire l’emergenza che riguarda i singoli, i professionisti. E’ indispensabile. Non basta consentire la vitalità dei teatri ma sostenere una categoria che, se scompare, non si fa più il teatro”.

Anche perché in gioco non c’è solo la categoria attoriale ma un numero elevato di professionalità a rischio…
“Noi, impiegati del teatro, lo prepariamo e lo consentiamo. Ma in scena ci si va grazie a questa comunità fantastica di grandissime professionalità che non possono essere dimenticate”.

Come si articola il vostro servizio di relazione con il pubblico? Sono state pensate anche altre iniziative in tal senso?
“Semplicemente è un numero telefonico. Come stiamo facendo con i nostri amici francesi, abbiamo aperto dei canali telefonici di comunicazione. Sembrerà un po’ antica forse la cosa. Abbiamo ripreso con loro il discorso delle ‘Consultazioni poetiche al telefono’, ossia un artista risponde a uno spettatore che si confida con lui e gli regala un brano di poesia, o una recitazione. Inoltre, c’è anche un numero dedicato che sta chiamando tutti i nostri abbonati per dire che noi ci siamo”.

Quindi anche per quanto riguarda gli abbonamenti si è cercato di sopperire instaurando un filo diretto col singolo spettatore?
“Sì, li stiamo chiamando tutti per chiedere se vogliano o meno un rimborso. Alcuni dicono di sì, altri ci regalano i soldi. Ma l’importante è dirgli, con messaggi semplici, che il teatro sta lavorando per loro. Credo sia l’unica cosa che possiamo fare nei confronti del nostro pubblico”.

I teatri, così come i cinema e altri luoghi di cultura, sono fra le attività che più hanno investito per garantire sicurezza e distanziamento sociale. La disposizione del Dpcm vi ha sorpreso o è una strategia condivisa? 
“Noi abbiamo fatto un grandissimo lavoro per rendere i luoghi sicuri. E i teatri sono luoghi stra-sicuri, forse anche più delle case credo. Però ognuno deve fare il suo mestiere. Io faccio da tanti anni il teatro. Se i medici fanno bene il loro mestiere, vuol dire che il provvedimento che oggi doveva essere fatto è quello indispensabile. Non posso dubitare che si svolga bene il lavoro altrui. Se si comincia a dubitare dei mestieri non se ne esce. Ognuno nella società civile faccia la sua parte con la massima onestà possibile”.

Lavoro e relazione col pubblico: una linea adottata anche da altri teatri?
“Noi, come fondazione autonoma, gestiamo il Teatro della Pergola di Firenze, il Teatro Studio di Scandicci e il Teatro Era di Pontedera. Sono queste tre le situazioni che fanno capo a noi”.