Matteo Fadda: “La pace è un bisogno primario. Dove c’è guerra non c’è vita”

L'intervista di Interris.it al nuovo responsabile della Comunità Papa Giovanni XXIII, Matteo Fadda

Matteo Fadda - Foto ©Apg23

Dall’emozione per l’elezione a nuovo responsabile generale della Comunità Papa Giovanni XXIII al suo primo incontro con il Servo di Dio don Oreste Benzi; dalla “comunità del noi” alla ricerca di un modo per favorire l’incontro simpatico con Cristo dei giovani; dal bisogno di pace che ha il mondo a come fare per cercare di costruire un mondo senza guerre. Sono alcuni temi che Matteo Fadda, nuovo responsabile generale dell’Apg23, ha affrontato nel corso dell’intervista rilasciata a Interris.it.

Chi è Matteo Fadda

Matteo Fadda è il nuovo responsabile generale della Comunità Papa Giovanni XXIII, il terzo dopo il fondatore don Oreste Benzi e Giovanni Paolo Ramonda che l’ha guidata per 15 anni dalla morte di don Benzi fino ad oggi. Matteo, 50enne, torinese, è stato eletto dall’assemblea generale a Rimini domenica 28 maggio 2023 al secondo turno con una maggioranza del 70%, su un totale di 203 votanti. Il nuovo eletto resterà in carica per 5 anni: il cambio alla guida si è reso necessario considerato che un Decreto del Dicastero vaticano per i Laici, approvato due anni fa da Papa Francesco, ha stabilito una durata massima di 2 mandati, 10 anni totali, per i responsabili dei movimenti e delle associazioni internazionali di fedeli laici. E’ stato responsabile della Papa Giovanni a Torino ed in Liguria, responsabile di Operazione Colomba, il corpo civile nonviolento di pace della Comunità, vice-presidente dell’associazione “Senza Confini” di Asti, presidente di “Condivisone fra i popoli”, l’Ong promossa dalla Papa Giovanni per gestire i progetti nei paesi all’estero.

L’intervista

Matteo cosa hai provato quando sei stato eletto responsabile generale della Comunità Papa Giovanni XXIII? Come hai accolto questa nomina?

“Negli ultimi incontri generali, prima dell’assemblea generale dell’Apg23, il mio nome era stato fatto, quindi io e mia moglie Carla un pochino ce lo aspettavamo. Ci siamo arrivati preparati, almeno interiormente. Poi, in realtà, quando hanno detto il mio nome mi hanno tremato le gambe. Non ho pensato molto, mi sono mosso più emotivamente che razionalmente. Mi ha fatto molto piacere avere Carla al mio fianco, mi sono sentito accompagnato dalla mia famiglia, collegata da casa. Paolo è stato ed è molto paterno e solidale. In questo servizio non mi sento da solo”.

Una responsabilità grande, un servizio importante: ti preoccupa in qualche modo?

“La mia preoccupazione più grande è di non fare bene, di non dare spazio al Signore e a quello che lui vuole. Ho il timore di rovinare qualcosa di bello. Dio e la Comunità mi hanno messo di fronte delle persone, delle vite: bisogna fare attenzione a non danneggiarle, non ‘soffocare’ lo Spirito, non limitare a causa dei miei limiti umani le opere del Signore. La speranza è che lavorando insieme, dobbiamo sentirci sempre di più un ‘noi’, i miei limiti vengano suppliti e colmati dagli altri pezzettini di questo grande puzzle che è la nostra famiglia”.

In questi primi giorni hai parlato più volte della “comunità del noi”, della necessità di un cammino più comunitario. In che senso? Puoi spiegarci meglio?

“Prima che appartenenti alla comunità Papa Giovanni XXIII siamo cristiani, come dice San Paolo: ‘Siamo di Cristo’. Questo essere di Cristo lo dobbiamo vivere quotidianamente nella Comunità mentre la nostra individualità tende a separare. Noi dobbiamo cercare di convertire questa tendenza alla separazione in un atteggiamento di comunione, che non vuol dire confondersi, non è un annullamento delle specificità personali. Quando parlo del ‘noi’ intendo dire che dobbiamo sempre di più entrare in un cammino in cui le singole persone fanno parte di un popolo: questo significa vivere una conversione continua. Credo molto nella comunione, nella comunità come specifico dell’essere cristiani”.

Tu e tua moglie Carla, come avete conosciuto l’Apg23?

“Attraverso degli incontri a cui partecipavano persone della Comunità che si occupavano di affido di minori. Io e Carla, ancora prima di conoscere l’Apg23, siamo stati coinvolti da una campagna del comune di Torino sull’affidamento. Abbiamo iniziato a conoscere la comunità tramite queste persone, poi abbiamo incontrato don Oreste, prima a degli incontri pubblici, poi ci è stato proposto di iniziare il cammino di PVV (periodo di verifica vocazionale) e, dopo, siamo entrati a far parte dell’Apg23”.

Puoi condividere con noi un ricordo di don Oreste Benzi che ti è particolarmente caro?

“Noi abbiamo incontrato don Oreste in privato una sola volta, per un colloquio personale. E’ stato emotivamente coinvolgente, in un paio di occasioni è stato molto lapidario: ci ha detto due o tre frasi che lì per lì ci ha lasciato un po’ perplessi, ma poi quelle parole ci sono rimaste nel cuore. Io personalmente ho un altro bel ricordo di don Oreste, di quando ho accompagnato i giovani a un congresso a Bologna: mi ha colpito il suo modo di comunicare con i ragazzi e le reazioni che loro hanno avuto alle sue parole. Mi piacerebbe che in comunità continuassimo su questo filone, quello di favorire l’incontro tra i giovani e Cristo”.

Proprio parlando dei giovani, sembrerebbe che negli ultimi anni abbiano perso l’interesse ad incontrare Cristo. Come fare per riavvicinarli alla fede? Come far capire loro che la vita non ruota solo intorno ai like che si hanno sui social ma che ci sono dei valori più profondi da scoprire?

“Questa è una sfida che dobbiamo affrontare. Non ho una risposta alla tua domanda, nel senso che tutti insieme dovremmo cercare la soluzione. I giovani vivono in un’epoca dove le relazioni spesso sono complesse perché passano attraverso strumenti social e c’è una modalità fittizia di incontrarsi che rende più insicure le personalità, più incerte le coscienze. Questo è il terreno di oggi. Un elemento attrattivo per i giovani è far vedere che quello che scegliamo lo viviamo in modo coerente, soprattutto se riusciamo a testimoniare la gioia profonda che questo modo di vivere ci procura. Io vedo che i giovani, in realtà, ci sono, si impegnano e si infiammano. Forse dobbiamo cercare di intercettarli e comunicare con loro. Nei giovani, grazie a Dio, c’è la voglia di cambiare il mondo e trasformarlo in un posto migliore. Don Oreste per incontrarli e parlare con loro andava nelle discoteche. Noi dobbiamo interrogarci su come fare, forse proprio andando sui social”.

Forse i social non sono da demonizzare in tutto e per tutto, ma potrebbero avere anche degli aspetti positivi… 

“Esatto, si tratta di usare bene questo strumento. Sono d’accordo, non dobbiamo demonizzarli ma stare attenti a come e perché utilizziamo i social”.

Tu sei stato responsabile di Operazione Colomba, il corpo civile non violento di pace della Comunità. Quanto bisogno abbiamo di pace? Come si costruisce la pace?

“Questa è una bella domanda! Abbiamo bisogno di pace tanto quanto abbiamo bisogno di mangiare e bere. La pace fa parte della vita, dove c’è guerra non c’è vita. La pace è un bisogno primario, tant’è vero che come Apg23 da tempo lavoriamo con le autorità con l’intento di promuovere il Ministero della pace. E’ molto difficile costruire la pace perché il nostro mondo è basato sulla logica del profitto e questo è basato su dinamiche di ingiustizia. Per ottenere il profitto bisogna essere in pochi, quindi c’è disuguaglianza; per poterlo mantenere bisogna sviluppare un potere superiore agli altri. Questo è alla base della dinamica della guerra che, tra l’altro, è un’industria molto redditizia. E’ necessaria una rivoluzione copernicana, bisogna cambiare l’universo e togliere il profitto dal centro e mettere l’uomo. Non è facile, ma sempre di più si cerca di muoversi in questa direzione, penso anche a realtà associative, Ong e istituzioni pubbliche che lavorano con questa filosofia. Bisogna partire dalla scuola, dalle famiglie insegnando un modo di vivere diverso e via via allargandosi sempre di più. Già il solo parlarne mi fa venire un brivido, verrebbe da dire che è un’utopia”.

Un’utopia di cui però potrebbe già essere stata posata la prima pietra. La Repubblica di San Marino si è dotata per legge di un Corpo Civile di Pace. Traguardo raggiunto grazie anche all’Apg23: il primo firmatario della proposta di legge di iniziativa popolare è proprio un membro della comunità… 

“Sicuramente, dei fratelli dell’Apg23 ci hanno lavorato, tra cui un ragazzo di Operazione Colomba che ha portato la sua testimonianza. San Marino è avanti dal punto di vista di emanazione delle leggi, ma poi renderle attuative è ancora un passaggio complesso”.

Tu e Carla avete aperto le porte del vostro cuore e della vostra casa a figli naturali e a figli rigenerati nell’amore. Cosa significa diventare genitore di chi un papà e una mamma non ce l’ha?

“E’ abbastanza normale che un bambino si attacchi a un genitore o ad una persona che gli dimostra affetto, è una dinamica molto naturale. E’ più difficile quando ti presti ad essere mamma o papà a tempo, sto parlando degli affidi temporanei. Si tratta di bambini che hanno dei genitori, ma che in quel momento non ce la fanno ad occuparsi dei figli. Costruire la relazione non è difficile, è molto simile alla relazione con un figlio naturale”.

Padre di famiglia, marito e ora responsabile generale di una comunità sparsa per il mondo: come affronterai questo tuo impegno?

“Un lavoro che io e mia moglie dovremmo impostare insieme, cercando di trovare un nuovo equilibrio. Un po’ alla volta cercando di modificarci nelle dinamiche famigliari e chiedendo alla Comunità di aiutarci. Credo che questo cammino lo potremmo fare solo insieme, sia a livello di famiglia sia a cerchi sempre più ampi fino alla comunità tutta”.