“Questi numeri – afferma Di Giacomo – evidenziano che la detenzione della popolazione carceraria straniera va gestita. Con mezzi, strumenti e soprattutto personale specifico. In troppi casi non si conoscono nemmeno le autentiche generalità e provenienza. L’assenza di traduttori è il primo problema. Con il personale penitenziario in grande difficoltà soprattutto di fronte ai continui fenomeni di fondamentalismo. Manifestazioni di radicalismo islamico che sfociano in atti di ribellione e protesta. Oltre alle gang di mafia nigeriana (oltre il 7% dei detenuti stranieri sono nigeriani) che sono un pericolo dentro e fuori le carceri. Per il segretario del S.Pp., le misure da mettere in campo sono decisamente più complesse e urgenti. A partire dall’attuazione dei trattati con gli Stati Africani per il rimpatrio di criminali nei propri Paesi di origine“. La radicalizzazione jihadista in carcere è definita da
Francesco Marone (Ispi) “una questione critica in tutta Europa, e non solo”.
Una delle principali preoccupazioni è costituita dal
rischio – purtroppo già tramutatosi più volte in realtà – che soggetti radicalizzati possano indottrinare e
mobilitare altri detenuti “comuni”. In effetti, aggiunge l’Istituto per gli studi di politica internazionale, l’esperienza della reclusione può persino diventare una sorta di opportunità per
proseguire la propria “lotta” estremistica. Facendo, per così dire, di necessità virtù. “In generale, i processi di radicalizzazione possono chiaramente essere favoriti in
un contesto particolare come quello carcerario – analizza Marone-. Un contesto che spesso è già caratterizzato da frustrazioni e risentimenti personali. Condizioni di v
ulnerabilità ed emarginazione sociale. Rigidi vincoli e limitazioni istituzionali”. Sono varie le motivazioni che possono innescare una trasformazione dei sistemi di credenze e dei
comportamenti di un detenuto. Incluso un processo di radicalizzazione jihadista.