La centrale nucleare di Zaporizhzja: ecco cosa potrebbe accadere

Scienziati ed esperti hanno pareri discordi sulla possibilità che si verifichi un disastro nucleare in Ucraina. Ma la situazione desta la preoccupazione internazionale

Ucraina
La centrale nucleare di Zaporizhzhia, a Kiev, in Ucraina

Gli ispettori IAEA, l’agenzia ONU per l’energia atomica, che sono in viaggio per raggiungere centrale nucleare di Zaporizhzja, in Ucraina, non riceveranno nessun pass speciale e avranno solo un giorno di tempo a loro disposizione per svolgere l’ispezione, come annunciato dai filorussi che controllano il territorio. Infatti, dal 4 marzo scorso, appena una settimana dopo l’inizio della guerra, la centrale di Zaporizhzja è finita sotto il controllo militare russo, sebbene continuino a lavorarvi i tecnici ucraini che ne garantiscono il funzionamento. La centrale nucleare è presso la città di Enerhodar, nella regione di Zaporizhzhia. Il capoluogo Zaporizhzhia è in mano agli ucraini e dista in auto 120 km dalla centrale, 2 ore di auto normalmente.  Il fronte è una decina di km a sud della città, dopo si passa al territorio occupato dai russi.

Lo scambio di accuse tra russi e ucraini

I combattimenti nei pressi della centrale non si sono mai fermati e sono aumentati nelle ultime settimane con accuse reciproche tra i belligeranti. L’Ucraina sostiene che la Russia vi abbia piazzato mezzi militari ed utilizzi la centrale come uno scudo da cui lanciare attacchi di artiglieria. Dall’altra parte, la Russia accusa l’Ucraina di bombardare la centrale nel tentativo di far ricadere la colpa sulla Russia stessa. Una situazione caotica che dall’inizio desta la preoccupazione internazionale. Rafael Grossi, il direttore generale dello IAEA, ha più volte ricordato che i bombardamenti nei pressi dell’impianto rischiano di portare ad un disastro nucleare.

Le caratteristiche di Zaporizhzja

Anzitutto partiamo dalle sue caratteristiche. La centrale si trova presso la città di Enerhodar, nella regione di Zaporižžja, lungo le sponde del Dnipro, il lungo fiume che nasce in Russia, bagna la Bielorussia, attraversa Kiev e tutta l’Ucraina per sfociare nel Mar Nero. Come viene sempre ricordato, si tratta della più grande centrale atomica d’Europa e la quinta al mondo. Ha sei reattori VVER ad acqua pressurizzata di progettazione sovietica che contengono Uranio 235. Gli edifici di contenimento dei reattori sono protetti da 10 metri di cemento, progettati per resistere all’impatto di un aereo e a catastrofi naturali, ma non è stata progettata per resistere a gravi azioni belliche. D’altro canto è la prima volta nella storia dell’umanità che ci si trova a dover gestire impianti nucleari in mezzo ad una guerra.

Pareri discordanti

Mark Wenman, che insegna Materiali Nucleari all’Imperial College di Londra sostiene che “il materiale radioattivo è ben protetto” e che gli edifici di contenimento dovrebbero reggere eventuali bombardamenti. Secondo il Prof. Leon Cizelj, presidente della European Nuclear Society “per le loro caratteristiche questi reattori non possono esplodere, pertanto ogni riferimento al disastro di Chernobyl non è corretto”. James Acton, scienziato britannico, direttore del Programma di politica nucleare presso il Carnegie Endowment for International Peace concorda sul fatto che il vero pericolo non siano i bombardamenti, ma il sistema di raffreddamento: “l’analogia corretta qui è Fukushima, non Chernobyl”.

La differenza tra i disastri di Fukushima e Chernobyl

Qual è la differenza tra i due disastri nucleari, i più gravi della storia, classificati al livello 7, il massimo della scala INES? A Chernobyl, nella notte del 26 aprile 1986, nel corso di un test di sicurezza, avvenne una potente esplosione che distrusse il reattore con conseguente incendio che fu la causa del rilascio di materiale radioattivo nell’atmosfera. La “nuvola” radioattiva si estese in gran parte dell’Europa centro-settentrionale arrivando anche in Italia, con livelli di radioattività inferiori, fino alla Pianura Padana. Le piogge causarono la ricaduta al suolo del materiale radioattivo trasportato dalla nube tossica.

A Fukushima, l’11 marzo 2011, il devastante terremoto fece attivare un sistema di sicurezza che portò allo spegnimento di tutti i reattori della centrale atomica. A questo punto si attivarono immediatamente i generatori elettrici di emergenza, alimentati a diesel per essere autonomi dalla rete elettrica in caso di blackout. La centrale aveva retto. Il problema fu che dopo circa quaranta minuti uno tsunami, generato dal sisma, si abbatté sulla centrale – le barriere di protezione erano più basse dell’onda alta 15 metri – e distrusse i generatori di emergenza che alimentavano i sistemi di raffreddamento dei reattori. L’interruzione dei sistemi di raffreddamento portò alla fusione del nocciolo di tre reattori. A differenza di quanto avvenne a Chernobyl, nell’incidente di Fukushima non vi fu un incendio con inquinamento nell’atmosfera, ma un rilascio di elementi radioattivi nell’Oceano Pacifico.

Le ipotesi di cosa potrebbe accadere

In una nota dello scorso 11 agosto l’Ispettorato Nazionale per la Sicurezza Nucleare (ISIN) – l’autorità che partecipa, in rappresentanza dell’Italia, alle attività svolte dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA) – spiega che eventuali danni alla centrale di Zaporizhzja “possono indurre lo sviluppo di scenari incidentali più gravi caratterizzati dal danneggiamento del nocciolo del reattore e della struttura di contenimento, con rilasci significativi di radioattività nell’ambiente”. In questa eventualità sarebbe necessaria “un’evacuazione nel raggio di 20 km [dalla centrale, ndr] e di riparo al chiuso nel raggio di 100 km, con un impatto significativo per la popolazione Ucraina”.

Ora, un’evacuazione in massa, in una situazione di panico tra la popolazione, nello stesso momento è uno scenario apocalittico. Le vie di comunicazione si bloccherebbero subito, ingorghi nelle strade, stazioni prese d’assalto. Pensare questo scenario in una situazione di guerra – con i bombardamenti, le strade distrutte, l’assenza di carburante – è inimmaginabile. Nel raggio di 20 Km dalla centrale la popolazione residente – prima della guerra – era la seguente: 54mila persone a Enerhodar, la cittadina adiacente la centrale, 46mila a Marganec’, 12mila a Kamianka, 30mila tra i villaggi circostanti ed infine 123mila a Nikopol. Ammettendo che la metà della popolazione sia scappata da queste zone a causa della guerra, è probabile che nel raggio di 20 km dalla centrale vivano ancora 130mila persone. Come potrebbero essere evacuate in caso di contaminazione radioattiva?

Non sarebbe poi trascurabile il “riparo al chiuso”, che dovrebbe durare diversi giorni, non si sa con quali scorte alimentari, con le famiglie ucraine che sono costrette a fare la fila ogni giorno per prendere l’acqua. Nel raggio di 100 km dalla centrale vi sono alcune grandi città: Zaporižžja, 750mila abitanti, Melitopol, 156mila abitanti, Kryvyj Rih, 630mila abitanti, ed infine Dnipro, che, prima della guerra, contava quasi un milione di abitanti. La Crimea, tanto cara ai russi, dista appena 150 km.

Se gli scienziati rassicurano su possibili conseguenze per la popolazione europea, occorre pensare anzitutto alle conseguenze per la popolazione ucraina che vive in guerra e non in un contesto “normale”, come quello assunto dai ricercatori nei loro studi. Perché una guerra intorno ad una centrale nucleare non c’era mai stata. Questa è la prima volta.