Gli anni della disillusione: da Sciascia a Pasolini, la generazione delle vie nuove

A Racalmuto, nei locali della Fondazione Sciascia, un convegno sugli intellettuali nati fra il 21 e il 25. Il professor Antonio Di Grado a Interris.it: "Utile parlare di generazione"

Leonardo Sciascia Pier Paolo Pasolini

Un solo anno di differenza, colmato dalla visione comune dell’Italia e della vita. Leonardo Sciascia e Pier Paolo Pasolini hanno dato forma e concretezza a un sodalizio che potrebbe essere definito professionale nel momento in cui le loro opere diventano lenti di ingrandimento sulla società della loro epoca. E, perché no, delle sentinelle sul percorso intrapreso in direzione del futuro. Una strada analizzata dalle loro opere come dall’operato di altre importanti figure intellettuali, nate fra il 1921 e il 1925 e testimoni oculari dei cambiamenti attraversati dal nostro Paese nell’arco di oltre un ventennio. Dall’ottimismo della ricostruzione post-bellica, passata attraverso il boom economico, alla disillusione sul vento del cambiamento, che sfocerà prima nel Sessantotto, poi nella violenza degli anni di piombo. Una generazione (perché di questo si tratta) che aveva intuito il cambiamento già poco prima che avvenisse, rivoluzionando il dibattito civile, politico e intellettuale della nostra società.

A poco più di un secolo di distanza dalla nascita dei due autori, il convegno “Cent’anni di solitudine: la generazione (1921-’25) di Sciascia e Pasolini”, organizzato il 22 e 23 ottobre presso i locali della Fondazione Sciascia a Racalmuto (AG), un consesso di esperti ha condotto un viaggio attraverso la storia recente del nostro Paese. Letta con gli occhi di una generazione che ha rotto lo schermo dell’illusione, offrendo illuminanti spaccati di vita: “C’era bisogno di un punto di vista nuovo – ha spiegato a Interris.it Antonio Di Grado, fra i curatori del convegno -. Una visione d’insieme, generazionale”.

Professor Di Grado, un convegno che pone una chiave di lettura nuova su personaggi che solo apparentemente riteniamo di conoscere. Quali spunti offre la visione attraverso il concetto di “generazione”?

“Abbiamo scelto questo taglio perché nuovo. In Italia, contrariamente a quanto avviene in altri Paesi – ad esempio in Spagna, dove si parla tranquillamente di ‘generazione’ – questo schema generazionale non è mai stato adottato, né dalla critica né dalla Storia. Invece credo sia utile e anche importante. Serve a indagare i rapporti fra di loro, la cronaca della loro formazione e della loro attività culturale. Tanto più per una generazione come questa, di nati fra il 1921 e il 1925, sicuramente decisiva, quella successiva al Dopoguerra, quella del 56. Ossia quando le speranze cominciano a venire meno. Il 1956 è l’anno del XX Congresso del Partito comunista sovietico, quello della destalinizzazione, ma anche dell’invasione dell’Ungheria. L’anno in cui si cominciano a mettere in discussione una serie di certezze maturate nel dopoguerra”.

Da lì inizia il cambiamento.

“Molti di questi intellettuali cominciano ad allontanarsi, a praticare vie più solitarie, difficili, meno ottimistiche. E questo in tutti i campi: ci sono letterati ma anche personaggi come Basaglia, don Milani, Berlinguer, Macaluso, grande amico di Sciascia e vicino alla ondazione ino agli ultimi anni”.

C’è un filo che lega autori come Leonardo Sciascia e Pier Paolo Pasolini alle altre figure citate. Il “sapere” sembra passare da una sfera più intellettuale a una visione più completa della società. Anche negli aspetti più prossimi alla vita delle periferie, tutt’altro che perfetta.

“È vero. Peraltro parlavo del 1956 come data di riferimento. E in quell’anno, Sciascia esce con “Le parrocchie di Regalpetra”, l’anno prima uscì “Ragazzi di vita” di Pasolini. E solo un anno dopo “Le ceneri di Gramsci”, fra le opere più rappresentative dello scrittore bolognese. Peraltro, fra i due autori ci u un sodalizio molto forte, pur nella loro diversità di intellettuali. Una solidarietà e un’amicizia fra i due fortissima. Pasolini fu il primo a recensire Sciascia quando esordì e questi, alla morte dell’amico, dirà chiaramente che la sua assenza era come se fosse la mancanza di una parte di sé stesso. Dice inoltre di Pasolini: ‘Ero sempre d’accordo con lui, anche quando aveva torto'”.

Interessante l’idea di inserire una figura affascinante ma meno trattata come quella di Goliarda Sapienza, il cui lavoro va ben oltre ‘L’arte della gioia’…

“La fama di Goliarda Sapienza si deve a questo libro che, secondo me, non è nemmeno il suo migliore. Lei ha scritto tantissimo e fra i suoi tanti volumi a me piace moltissimo ‘Il filo di mezzogiorno’, in cui racconta la sua esperienza psichiatrica. Ma anche il riferimento alla sua infanzia catanese e ai suoi genitori in ‘Io, Jean Gabin’, che rievoca una famiglia molto particolare. Si tratta sicuramente di una figura da rivalutare in tutti i sensi. È stata giustamente ‘adottata’ dal femminismo ma ritengo che la sua importanza sia decisamente maggiore”.

Ha citato don Milani ma il tema della fede e della religione in generale emerge in modi diversi anche nelle opere di Sciascia e Pasolini. Esiste anche questo come filo conduttore?

“Sia Pasolini che Sciascia coltivarono una forma laica di fede. Su questo piano, alcune delle cose più importanti le hanno dette proprio i laici. In Sciascia, se si prende il romanzo ‘Il cavaliere e la morte’, che può essere considerata la sua opera testamentaria, quando il protagonista muore avvista il cancello della preghiera. Capisce che c’è la possibilità di questa scelta. Da laico non lo varca ma ne riconosce l’esistenza. E Sciascia, peraltro, ricevette funerali religiosi”.

A proposito di film, l’approfondimento della figura di Francesco Rosi si lega alla perfezione non solo con Sciascia scrittore ma anche con i contesti e le tematiche più controverse dell’Italia di quegli anni.

“Inoltre Rosi girò quello che è forse il miglior film tratto da un romanzo di Sciascia, ossia Cadaveri eccellenti, tratto da ‘Il contesto’. Fra loro si instaurò un rapporto di collaborazione e amicizia. Ma vorrei citare anche Damiano Damiani, che fu regista del primo film tratto da un romanzo di Sciascia, ‘Il giorno della civetta’. Probabilmente non un capolavoro ma ha la sua importanza, servito a diffondere la fama del romanzo stesso e del suo autore”.

Apparentemente, tali tematiche sembrano destinate a un pubblico “esperto”. Eppure questa generazione, che analizzò per prima la disillusione dell’ottimismo seguito al boom economico, sarà propedeutica al Sessantotto. Un movimento dei giovani…

“Certamente. Tra l’altro, la Fondazione Sciascia è stata sempre rivolta a un pubblico giovanile. Ogni anno facciamo un convegno a ine noemebre su un romanzo di Sciascia sul quale le scuole di varie città hanno lavorato durante l’anno, per poi venire a fare la loro relazione. Un convegno affidato e gestito completamente a studenti e insegnanti. Lo facciamo da tanti anni e ha un grande successo nelle scuole”.

Curiosità o un approccio duraturo nel tempo?

I ragazzi sono molto incuriositi ma le dirò questo: per quasi mezzo secolo ho insegnato letteratura italiana all’Università e, nel momento in cui uno studente viene a discutere della sua tesi di laurea e presenta una sua proposta, gli argomenti più gettonati sono Sciascia e Pasolini. E questo è un buon segno.