Leonardo Sciascia, scrittore libero: “Le ingiustizie sociali le vide con i suoi occhi”

A Interris.it, il regista e autore teatrale Fabrizio Catalano, nipote del grande scrittore, ricorda la figura di suo nonno: "La sua scrittura come un anticorpo per la società"

Leonardo Sciascia

“Poveri innocenti”. Uno degli ultimi passaggi che chiude il romanzo A ciascuno il suo. Riferito “a chi non sa niente”. Nudo e crudo. Del resto non è sempre necessaria una connotazione specifica per ricordarci che, in fondo, nella società ci viviamo perché esseri senzienti, in grado di distinguere il bene dal male. E soprattutto di scegliere la strada da percorrere. Leonardo Sciascia quelle strade le mette nero su bianco, prima critico che scrittore. Nato lontano dal fascino della grande città, occhi negli occhi con quella parte di Paese che si chiede perché Regalpetra sia solo saline e miniera. Come i fontamaresi di Ignazio Silone, poveri ma consapevoli. Anzi, “poveri innocenti”.

Sciascia, la Sicilia e l’Italia

Cento anni fa, la Sicilia che dava i natali a uno dei maggiori scrittori della contemporaneità era luogo dove le ingiustizie si toccavano con mano. Nella misura in cui la povertà della terra si rifletteva sulla vita dei suoi figli. Ma, come avrebbe detto più tardi Sciascia, “tutta l’Italia va diventando Sicilia”. E l’occhio vigile, analitico, attento di chi indaga la società traduce le immagini nella lucida azione della penna. Testi che sono quasi fotografie, fatti che diventano lettere, echi di ragazzi che si alzano dal banco di scuola per “infilarsi nei cunicoli della miniera” che emergono fra le righe. L’eredità culturale di Sciascia è così vasta che qualche decennio non è stato sufficiente per riuscire a coglierne tutti i significati. Ma una consapevolezza c’è: che quell’analisi lucida, sofferta, delusa ma ragionata della società siciliana del ‘900 sia ben più prossima alla nostra di quanto ci si aspetti.

Fabrizio Catalano, autore e regista teatrale, di Leonardo Sciascia è nipote. E l’opera di su nonno l’ha mostrata all’Italia intera, portando in teatro quei romanzi che così lucidamente avevano messo a nudo le criticità della sua terra. “E fuori dai teatri l’interesse continuava a manifestarsi. Oggi – racconta a Interris.it – ci sarebbe bisogno di una voce dissonante come quella di mio nonno”.

Fabrizio Catalano
Fabrizio Catalano

Fabrizio Catalano, nei testi di Sciascia emerge una componente di attualità che continua a sorprendere. Quasi come se l’evoluzione della società italiana continui a fare i conti con il suo passato, senza mai essere riuscita a debellarlo del tutto…
“Nel penultimo romanzo di mio nonno, Il cavaliere e la morte, c’è un dialogo fra il protagonista, un vecchio funzionario di Polizia, che per tutto il libro viene chiamato il Vice, e un agente dei Servizi segreti. Il primo dice: ‘La sicurezza del potere si fonda sull’insicurezza dei cittadini’. E l’altro risponde: ‘Di tutti i cittadini, anche di quelli che spargendo insicurezza si credono sicuri’. Basterebbe questo a testimoniare l’attualità devastante di Sciascia, perché è esattamente quello che stiamo vivendo. Ma è anche quello che ci dà speranza, perché alla fine lo spargere insicurezza potrebbe ritorcersi contro chi lo sta facendo. In questo senso la figura di Sciascia manca moltissimo, nella misura in cui alle nostre società mancano le voci dissonanti. E allora l’unica nostra chance è cercarla nel passato. Durante la quarantena, con due sociologi, abbiamo scritto il libro Il tenace concetto, provando a leggere l’attualità attraverso gli scritti di Leonardo Sciascia. Uno di loro mi chiedeva ‘chissà cosa avrebbe detto tuo nonno del coronavirus’. Ora, si può dare un significato anche metaforico, ma forse con Sciascia, Pasolini o Sartre, il coronavirus non sarebbe esistito”.

In che senso?
“Il Covid è frutto di una società senza anticorpi, dove convivono estremo sviluppo tecnologico e totale mancanza di consapevolezza”.

In effetti, a volte si fa quasi fatica a tenere il passo del cambiamento. In un certo senso, sembra che l’insaziabile sete di novità impedisca di far propria quella fetta di tempo utile a comporre il quadro, a ragionare sugli effetti del contesto che cambia…
“Molto semplicemente, il problema sarebbe riflettere. Noi viviamo in una società basata sulla magia. Un tempo ci saremmo scritti una lettera, essendo in grado di smontare e rimontare quella penna. Oggi se smontiamo il telefono non lo sappiamo più rimontare, pur usandolo tutti i giorni. E questo trionfo della magia, molto inquietante che si sia laici o cattolici, ti impone di credere in delle cose senza che dietro ci sia niente. E credo che tutto questo possa avvenire perché nella società in cui viviamo non ci sono uomini come Sciascia. O forse ci sono però non possono più emergere, perché il sistema è ottenebrato dal politicamente corretto. L’arte latina e italiana è tutta politicamente scorretta… E avendo perso questo, siamo rimasti senza anticorpi”.

Sciascia
Leonardo Sciascia con suo nipote Fabrizio

Secondo lei la nostra società soffre di un eccesso di informazione? Del sovraccarico di lanci, slogan, pensieri repentini e condivisi ma forse non sufficienti a riconoscere l’elemento concreto da quello effimero? 
“Indubbiamente. E a questo va aggiunta una dimensione di fretta. Anche noi stiamo parlando a un ritmo molto più veloce di quello che si usava trenta o quarant’anni fa. E’ un esercizio un po’ sterile, ma non si potrebbe catapultare uno come Sciascia ai tempi di oggi. Se si rivedessero i suoi interventi a Mixer, di 100 secondi, si vedrebbe comunque un uomo che parlava in maniera pacata, lenta, con gli occhi bassi perché il proiettore gli dava fastidio. Certo, questo è tutto diverso. Nelle televisive di oggi non ci sono ragionamenti, ma più che altro delle battute di alcuni secondi. Troppo pochi per imbastire un ragionamento. Questa è la magia, ma l’essere umano è tutta un’altra cosa”.

Si toglie spazio al confronto e a una lettura critica? Ci saziamo dell’informazione veloce?
Mi viene in mente un esempio consono. Prima delle chiusure delle Festività, ho avuto modo di vedere il presepe di Piazza San Pietro. Ora, anche se sono stato più volte in Bolivia, non capisco le critiche mosse. Non vedo perché il rispetto della terra dovrebbe essere in contrasto con la religione cristiana. Nessuno parla dell’essenza, in questo caso il rispetto del Pianeta”.

La Fondazione Sciascia a Racalmuto

Grandi autori avevano già descritto la Sicilia. Verga, Pirandello, ognuno con la sua accezione e la sua voce. Con Sciascia sembra cambiare l’interpretazione. Si inserisce una lettura estremamente complessa, quasi giornalistica, eppure estremamente immediata e diretta…
“Fra Sciascia e Pirandello c’è una differenza sostanziale, sebbene fossero nati a 18 chilometri di distanza l’uno dall’altro. La classe sociale da cui si veniva. Rispetto agli altri autori che ha citato, Sciascia non era borghese. Ma non nell’accezione retorica del termine. Inoltre veniva da una zona particolarmente arretrata della Sicilia, che in parte lo è ancora oggi. Rispetto a Verga o Pirandello, aveva avuto un contatto diretto e in prima persona con le ingiustizie della società. Nella nota introduttiva a Le parrocchie di Regalpetra, c’è una frase come se la meridiana dell’orologio di Racalmuto segnasse ancora un’ora imprecisata del 13 luglio 1789, ancora prima della Rivoluzione francese. E dice: ‘Chissà quando passerà l’ora delle rivoluzioni e arriverà l’ora di oggi’. Questo spirito cosciente e consapevole doveva anche fare rabbia. Mio nonno ha insegnato a bambini che a otto anni lavoravano nei cunicoli delle miniere. E’ cresciuto in questo mondo che, in uno spirito che per circostanze fortuite si era imbevuto della lettura dell’illuminismo francese, non poteva che suscitare sdegno”.

Nonostante la complessità sociale, il linguaggio di Sciascia è semplice nella sua profondità. Quasi i testi fossero immagini.
“E posso dire che lui era semplice anche nel modo di scrivere. Lui scriveva nel suo studio, con la porta aperta, anche con noi bambini che giocavamo e schiamazzavamo. Mai lui si è lamentato dicendo di non riuscire a concentrarsi. Restava lì, rigorosamente davanti alla macchina da scrivere. Una volta gliene regalarono una elettrica ma la rimandò indietro perché non riusciva ad adattarsi. Scriveva con i due indici, tre-quattro pagine al giorno e correggendo molto poco. Era un fatto quotidiano e questa maniera di essere diretto e profondo veniva dal suo talento”.

Il centenario è sempre una ricorrenza importante. Tante iniziative, tanti modi di ricordare una persona. Lei ritiene che questo anniversario contribuirà a far riscoprire quel necessario senso critico che serve a riflettere sulla contemporaneità?
“Io spero di sì. Sciascia non aveva simpatia per la retorica. E se queste celebrazioni si risolvessero in un esercizio di retorica, lui certamente non sarebbe contento. Però credo che non sarà così. Negli anni mi è capitato di fare spettacoli incentrati su opere di mio nonno e in ogni zona d’Italia sentivo fuori dal teatro uno zoccolo duro di interesse. Sciascia è veramente l’unico autore della letteratura italiana sul quale si sia scatenata la ricerca dell’erede. Nessuno si è posto il problema dell’erede di Manzoni, Foscolo o Leopardi. Invece ci sono tante persone che si affannano a voler essere eredi di Leonardo Sciascia. E non possono per un semplice fatto. Quando c’erano le lire, Sciascia rifiutò cinque miliardi da una casa editrice dicendo: ‘Voi con questi soldi non comprate i miei libri, comprate me’. Con lo stesso tono con cui avrebbe detto: ‘Io dopo le cinque il caffè non lo bevo’. E nessuno di noi può garantire che ne sarebbe capace”.

La biblioteca della Fondazione Sciascia