La fascia sahelo-sudanese sotto ricatto delle sigle jihadiste

Si moltiplicano i gruppi che mirano alla creazione di un vero e proprio stato islamico, sottoposto all’applicazione della shari‘a. La strategia dei rapimenti di occidentali

Foto © Vatican Media

La stratagia delle sigle jihadiste tra rapimenti e geopolitica del terrore. “Gli ultimi anni hanno segnato un irradiamento delle formazioni radicali islamiche in Africa– documenta lspi-. La fascia sahelo-sudanese immediatamente a sud del Sahara è sempre stata una regione d’instabilità e insicurezza. Questo soprattutto per due motivi: da una parte, i processi di desertificazione e la difficile conciliabilità fra le esigenze degli stati costituiti e gli usi dei nomadi che non tollerano le frontiere; dall’altra, la difficile convivenza fra popolazioni musulmane e arabizzanti al nord e popolazioni nere e in parte cristianizzate al sud“.

Centralità geopolitica

A questa ragione storica d’insicurezza, aggiunge l’ Istituto per gli Studi Politica Internazionale, deve essere sommata l’accresciuta presenza di gruppi jihadisti. Il Sahara ha acquisito una nuova centralità geopolitica: l’attenzione si è polarizzata in particolare sul Mali e sull’intervento internazionale contro le formazioni radicali islamiche e secessioniste che ne hanno occupato il nord e che hanno proclamato lo stato dell’Azawad. Questa parte di Africa appare sempre più collegata al mondo arabo-islamico con i suoi problemi insoluti. Proprio la difficile transizione democratica in Nord Africa ha aperto ai gruppi jihadisti nuove possibilità e campi d’azione, oltre che nuove connessioni, principalmente tramite la Libia e il Mali, tra la regione mediorientale e quella africana. “La zona del Sahel e del Nord Africa si è contraddistinta negli ultimi anni per una rapida proliferazione di sigle jihadiste- documenta l’Ispi-. Questi gruppi mirano alla creazione di un vero e proprio stato islamico, sottoposto all’applicazione della shari‘a. Se, quindi, le finalità dei vari gruppi appaiono simili e si alimentano di un’ideologia comune, tattiche, mezzi e circostanze possono essere alquanto diversi“.

Mediazioni

Dopo la liberazione sabato scorso di Silvia Romano sono tre gli italiani rapiti di cui non si hanno più notizie: il missionario Pierluigi Maccalli, il gesuita romano Padre Dall’Oglio e il turista Nicola Chiacchio.  Endemici conflitti africani e guerra civile siriana sono i contesti infuocati dai quali sono stati inghiottiti. Padre Dall’Oglio, fondatore della Comunità di Mar Musa è stato rapito a Raqqa il 29 luglio 2013 mentre cercava di mediare tra le milizie anti-regime e il governo siriano che aveva ordinato la sua espulsione. Il gesuita era rientrato clandestinamente nel martoriato paese mediorientale e da allora anche la diplomazia vaticana, oltre all’intelligence italiana, si è mossa incessantemente per avere informazioni. Nei campi jihadisti del Mali settentrionale sono tenuti prigionieri padre Gigi Maccalli, missionario della Sma, la Società delle missioni africane e Nicola Chiacchio, cinquantenne campano, ingegnere aereospaziale e appassionato di viaggi in angoli difficili del pianeta. Il missionario cremasco è stato catturato il 17 settembre 2018 da un gruppo di uomini armati che avevano fatto irruzione nella sua parrocchia di Bomoanga, una missione nella diocesi di Niamey alla frontiera del Niger con il Burkina Faso. Non si sa più nulla del turista Chiacchio, invece, dal 4 febbraio 2019: è stato fermato per due giorni da una pattuglia di militari a Douentza mentre era diretto in bicicletta a Timbuctu. Il suo attraversamento in bici del Mali è proseguito verso una delle aree più pericolose del Sahel. Un video pubblicato un mese fa sul sito della Società delle Missioni Africane mostra padre Maccalli , e Chiacchio mostrati davanti alle telecamere dai loro sequestratori per dare prova che sono ancora in vita.

In Africa e Siria

Dunque sono in Africa e Siria, gli italiani in mano ai sequestratori. Sono missionari, imprenditori e turisti: la Farnesina è al lavoro per riportare in Italia i connazionali ancora in prigionia all’estero. Di loro si sono perse le tracce e il ministero degli Esteri è impegnato in complicate trattative e triangolazioni di contatti nelle zone dei conflitti sanguinosi nei quali sembrano svaniti nel nulla. Oltre a Silvia Romano nell’ultimo anno sono stati liberati tre italiani sequestrati all’estero (Sergio Zanotti, Alessandro Sandrini e Luca Tacchetto) e tre sono ancora i connazionali in mano ai rapitori (appunto Maccalli, Chiacchio, Dall’Oglio). Finiti nel mirino di bande criminali e jihadiste, usati come merce di scambio o scudi umani, al centro di complesse negoziazioni internazionali per cercare di riportarli a casa. “Siamo al lavoro per riportare in Italia anche gli altri italiani ancora in prigionia- ha dichiarato domenica a Ciampino il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio-. Voglio ringraziare a nome del dicastero degli Esteri tutti quelli che hanno collaborato per riportare Silvia Romano in Italia. Nel giorno della festa della mamma ritorna Silvia, un augurio alla sua mamma e a tutte le altre mamme e genitori degli altri cittadini italiani ancora in stato di prigionia all’estero, lavoreremo per riportarli a casa: l’Italia non lascia indietro nessuno. Il lavoro continuerà e andrà avanti dalle prossime ore“.

Riscatto

Sottratti ai loro rapitori oppure rilasciati da terroristi o delinquenti comuni dietro pagamento di un riscatto nell’ultimo anno sono stati ricondotti in patria tre italiani. E cioè l’imprenditore Sergio Zanotti, rapito nel 2016 al confine tra Turchia e Siria e liberato nell’aprile 2019. Anche la conclusione di quell’operazione fu annunciata, come sabato scorso per il caso della cooperante milanese, dal premier Giuseppe Conte e Zanotti dichiarò in seguito che “se non si fosse pagato un riscatto, non sarei qui”. Un mese dopo è stato riportato in Italia il 34enne bresciano Alessandro Sandrini, anch’egli rapito al confine tra Siria e Turchia nell’ottobre 2016 e per tre anni tenuto in ostaggio dai suoi sequestratori. Due mesi fa, poi, è tornato a casa l’architetto padovano Luca Tacchetto, rimasto per 15 mesi in mano ai suoi carcerieri in Burkina Faso.