Enzo Tortora, l’ingiusto incubo prima della verità

Trent'anni fa la scomparsa del grande giornalista e presentatore, vittima di un clamoroso errore giudiziario che ne compromise la carriera. E anche la vita

Ieri è trascorso in silenzio l’anniversario della morte di Enzo Tortora, presentatore e giornalista di chiara fama e di spiccate qualità comunicative, tanto che i suoi due programmi televisivi più noti, La Domenica Sportiva e Portobello, sono rimasti ineguagliati. Ma un tragico destino lo ha portato alle cronache quale vittima di un clamoroso errore giudiziario, la cui gravità intrinseca, che pur denota l’incapacità di un sistema di sterilizzare l’operato dei propri addetti, è stata addirittura travolta dalla tragicità della ostinazione, pur di fronte ad elementi che, appena approfonditi come doverosamente previsto, hanno chiarito l’assoluta insussistenza del benché minimo elemento non solo di prova ma addirittura di sospetto.

Molti sanno che lo smarrimento di alcuni centrini inviati alla redazione di Portobello dal detenuto Pandico determinò l’ira di costui e pur il risarcimento di 800 mila lire, che la RAI riconobbe in quel lontano 1983, non valse la vendetta per lo sgarro. Bastò un pentito che appuntò sulla sua agendina il nome Tortona (scambiato per Tortora) con un numero di telefono non riferibile al noto giornalista per far scattare le manette con un’accusa infamante e l’avvio di un incubo durato addirittura quattro anni prima della verità.

Valsero le innumerevoli prese di posizioni a suo favore dal mondo politico e culturale che lo sostennero incessantemente di fronte all’evidenza dell’assurdo? Sicuramente sì, nel segno della migliore solidarietà umana ed italiana ma troppo a lungo durò l’agonia, figlia proprio di quella ostinazione che dovrebbe espungersi dal carattere degli operatori di giustizia.

Non fu risarcito, né lui né la sua famiglia per i danni subiti; morì un anno dopo la sua liberazione per un brutto male, chissà se provocato dall’angoscia subita per una detenzione ed una vetrina ingiuste.

Neanche la legge che l’ondata popolare volle col referendum fu poi utilmente efficace, per il filtro alla ammissibilità della domanda (chissà perché solo per questa categoria) ed il carico di responsabilità allo Stato con rivalsa limitata; non penso affatto che i giudici debbano rispondere economicamente dei propri errori, in assenza di dolo e colpa grave, se vogliamo una giustizia sincera, ma il principio va esteso anche a tanti altri lavoratori ed operatori in settori altrettanto importanti, penso ai medici ed ai funzionari pubblici, le cui attività oggi sembrano più improntate ad evitare le conseguenze di chissà quali fantasie di errore piuttosto che alla funzione cui sono dedicati.

Ma la grandezza di Enzo Tortora sta non tanto nell’aver subito insopportabili ingiustizie reagendo con metodi consentiti ma nell’aver voluto parlare anche a nome di tutti quelli che non possono parlare, alla ripresa della sua apparizione in TV nelle consuete vesti di conduttore, anticipando di decenni il messaggio di Papa Francesco sulla cultura degli scarti: questa sua profonda consapevolezza che il male atavico si annida dove prosperano odio ed aggressione invece che serenità e riflessione nei rapporti tra le persone lo solleva tra i baluardi del pensiero contemporaneo.

È la coltivazione dei sospetti e dei veleni, la dinamica dell’aggressività e della prevaricazione, la logica di urlare più forte per farsi sentire, di fare rumore, ignorando il saggio detto antico che il carretto fa più rumore quando è vuoto.