L’ULTIMA PERSECUZIONE

Nel tragitto di strada dalla chiesa al piccolo market di Gaza City, padre Jorge Hernandez cammina tra asfalto e macerie, i bambini giocano vicino alle case fantasma distrutte dai bombardamenti e gli abitanti cercano di riconquistare quella quotidianità rubata dai 50 giorni di conflitto con Israele.

Dopo 375 giorni dall’inizio dei raid su Gaza, 2139 palestinesi morti, tra cui 490 bambini e 8600 feriti, si tenta di tornare alla normalità, ma come dice il sacerdote argentino parroco nei territori della Striscia, “ancora i più piccoli hanno il sonno disturbato e non riescono a dormire” per la paura.

I bombardamenti hanno avuto inizio l’8 luglio 2014 quando Israele ha lanciato un’operazione militare contro Gaza dopo che migliaia di razzi e colpi di mortaio erano già stati sparati da Hamas. La tensione ha raggiunto il suo culmine il 30 giugno, con il ritrovamento dei corpi di tre studenti che frequentavano una scuola rabbinica rapiti il 18 giugno e il conseguente sequestro e poi uccisione di un ragazzo palestinese.

E’ qui, tra le mura di una città che fatica a rialzarsi, che padre Hernandez continua a servire una popolazione ferita da anni di guerra. Nella sua chiesa ha ospitato 1400 persone, per la maggior parte musulmani e lui è uno di quelli che è rimasto a Gaza perché crede che il desiderio di ricostruire la città sia più forte del dolore e della paura. Le difficoltà però sono tante, e la discriminazione religiosa è una di queste.

Non si tratta solo di sangue versato in nome della fede, quella che vivono a Gaza molti cristiani è una “persecuzione silenziosa”, uno schiaffo ai diritti civili. Non gole tagliate e raccapriccianti torture ma una sorta di “apartheid” che divide la popolazione in base al proprio credo.

“Se cerchi lavoro, la prima cosa che ti chiedono è se sei musulmano. Se lo sei, ti chiedono se stai con Hamas o Fatah. Se non sostieni nessuno dei due, ti chiedono in quale moschea vai, perché vogliono capire a chi sei fedele”. Il parroco di Gaza continua spiegando che “se sei cristiano nessuno ti fa queste domande, perché nessuno ti dà un lavoro. L’unico modo per ottenerlo è attraverso un amico musulmano che faccia da intermediario. Nessun negozio, scuola o banca darebbe mai la possibilità di un lavoro”.

Per i fedeli cristiani, dunque, non c’è solo la paura di qualsiasi altro palestinese che teme improvvisi bombardamenti, ma si aggiunge il timore della reazione interna contro di loro, così come accaduto in Siria o in Iraq dove i movimenti integralisti hanno preso di mira questa minoranza. Dall’inizio del 2000 la percentuale di cristiani nella Striscia di Gaza si è letteralmente dimezzata, passando dal 2 all’1% in 15 anni. Tra le motivazioni principali alla base di questo nuovo esodo, vi è certamente la mancanza di quei requisiti minimi che possano garantire una vita dignitosa. Oggi sono circa 3000 le persone rimaste, che subiscono queste discriminazioni, un numero nettamente basso se si considera che i musulmani sono 1,4 milioni.

Il rischio per Gaza, così come per tutto il Medio Oriente, è quello che le radici cristiane vengano completamente cancellate; per questo padre Hernandez non vuole lasciare la città e resta al fianco dei fedeli e della popolazione della Striscia, continuando a credere che un dialogo con i musulmani sia possibile.