Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo

«Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo» «Omnis ex vobis, qui non renuntĭat omnĭbus, quae possĭdet, non potest meus esse discipŭlus»

Mercoledì 4 novembre – XXXI settimana del tempo ordinario – Lc 14, 25-33

In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo. Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”. Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace. Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo».

Il commento di Massimiliano Zupi

Il Vangelo di oggi è in stretta continuità con quello di ieri (Lc 14,15-24). Per essere beati così come per entrare nel regno, per essere suoi discepoli così come per vincere la battaglia, la porta stretta attraverso cui passare (Mt 13,24) è sempre la medesima: farsi poveri. Ora, però, la ricchezza cui rinunciare non è solo quella propriamente detta: il campo da andare a vedere, o i buoi da valutare (Lc 14,18-19). È anche ogni affetto: la moglie da sposare, la propria famiglia, padre e madre, fratelli e sorelle, figli. Cosa c’è di sbagliato in simili affetti? Perché occorre rinunciarvi?

Il problema è comprendere con quali armi si possa vincere la battaglia: come cioè la vita possa trionfare sulla morte, la comunione sulla divisione, la verità sulla menzogna. Se l’arma è la povertà, la rinuncia ad ogni avere, il significato positivo di questa negazione, il recto di questa moneta, è il dono: interpretare la vita quale dono ricevuto ed offerto è partecipare fin d’ora alla cena preparata dal padrone. Ecco dunque perché rinunciare anche agli affetti più cari: se essi sono vissuti come possesso, diventano arma del Nemico; nella misura in cui invece sono vissuti come dono, dilatano il cuore, fino a renderlo simile a quello di Dio. Ed ecco perché portare la propria croce: solo nel dono di sé si realizza la vittoria sul male (Rm 12,21) e ci si trasforma da sepolcri imbiancati (Mt 23,27) in sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna (Gv 4,14).