“Nessun profeta è bene accetto nella sua patria”

«Nessun profeta è bene accetto nella sua patria»
«Nemo prophēta acceptus est in patrĭa sua»

Terza settimana di Quaresima – Lunedì – Lc 4, 24-30

In quel tempo, Gesù [cominciò a dire nella sinagoga a Nàzaret]: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova a Sarèpta di Sidóne. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Elisèo, ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro».

All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino.

Il commento di Massimiliano Zupi

La profezia è un’istituzione paradossale: nasce infatti per criticare le altre istituzioni, nello specifico, in Israele, il potere politico e religioso. Il fatto è che ogni istituzione nasce per il bene comune, ma poi inevitabilmente re e sacerdoti finiscono con il preoccuparsi di consolidare il proprio potere e con il dimenticarsi del popolo. Giovanni Battista rappresenta emblematicamente il destino di tutti i profeti: rinchiuso in carcere ed infine messo a tacere per sempre, perché non disturbi più il potere costituito. Del resto, quel che nel Vangelo di oggi si dice accadere a Nàzaret, è evidente anticipazione di quel che sarebbe accaduto a Gesù stesso: cacciato al di fuori delle mura della città e là crocifisso.

Gesù porta a compimento la profezia: egli, più che il potere politico o religioso, contesta la tendenza che ogni uomo ha a fare della propria vita un’istituzione. La sua profezia non ha di mira anzitutto il palazzo reale o il tempio, bensì il corpo dell’uomo. Il corpo di ogni uomo infatti è la dimora di Dio, dello Spirito Santo (1 Cor 6,19). Se Dio è amore (1 Gv 4,8.16), allora anche il corpo dell’uomo è fatto per amare. Conseguentemente, tutto ciò che l’uomo fa, ogni istituzione che crea nella sua vita, deve essere finalizzata ad amare: la famiglia, il lavoro, le amicizie. Ora, però, anche le piccole istituzioni che ognuno di noi costituisce nella sua vita privata, tendono a cristallizzarsi, a conservarsi, ad irrigidirsi, a discapito del fine per il quale erano nate: nella famiglia si spegne l’amore, il lavoro diventa routine, le amicizie rimangono superficiali. Ecco allora che viene Gesù a darci fastidio. La liberazione della nostra vita infatti comporta sempre un Egitto da abbandonare, la sicurezza di una pentola di carne e pane alla quale rinunciare (Es 16,3). Per accogliere il suo annuncio, occorre uscire dalla nostra patria (Gn 12,1): mettere in dubbio le nostre abitudini, convinzioni, ragioni. Al termine del brano di oggi, Gesù passa in mezzo ai nazareni e si mette in cammino: ci chiama ad andare dietro a lui. Amare infatti significa accettare di decostruirsi costantemente, pur di mettere al centro l’amato: l’amore è un esodo permanente.