Studenti più bravi o scuole più facili?

Mezzo milione di studenti sostiene la prima prova dell’esame di Maturità. Ma c’è una buona notizia per i maturandi: la scuola italiana boccia di meno. Secondo il Ministero dell’Istruzione, infatti, nell’anno scolastico appena concluso gli studenti dei licei e degli istituti tecnici hanno fatto registrare un dato positivo, in linea con la diminuzione degli anni scorsi: solo il 7,1% degli alunni dovrà ripetere la classe. Una lieve flessione rispetto al 2016/2017, quando i non ammessi alla classe successiva sono stati il 7,5%. Il calo è pressoché omogeneo tra tutti i percorsi di studio, anche se resta confermato il maggior picco di ripetenze negli Istituti tecnici e professionali. Le bocciature sono più frequenti il primo anno di corso, che sembra presentare le maggiori criticità con la percentuale più alta di non ammessi alla classe successiva (l’11,2%). Complessivamente il dato negli anni è andato diminuendo, basti pensare che la media italiana intorno al 2012 si aggirava intorno al 17% di bocciati.

Il debito

Aumentano le promozioni, ma aumentano anche gli studenti che vedono il loro giudizio sospeso. Secondo i dati del Miur l’anno scorso gli alunni che hanno dovuto recuperare almeno un’insufficienza sono stati il 22,4%, contro il 21,7% del 2016/2017. Sardegna e Lombardia, le regioni dove ci sono state più sospensione del giudizio. Mentre in Puglia e in Calabria si è registrato il numero più basso. Il picco è stato raggiunto dagli Istituti tecnici, subito dietro gli Istituti professionali e i licei.

Bocciature vs sostenibilità del sistema

Nel 2012 l’Ocse scriveva che “l’esigenza di fare ripetere una classe implica costi elevati: alla spesa di un anno aggiuntivo d’istruzione bisogna aggiungere il mancato introito per la società quando si differisce di almeno un anno l’ingresso dello studente bocciato sul mercato del lavoro. In Italia, il costo delle bocciature rappresenta il 6,7% della spesa annua nazionale per l’istruzione primaria e secondaria”. Un dato che trova conforto nei numeri: una bocciatura in un istituto Tecnico o in una scuola media costa allo Stato circa tra 6 e 7mila euro. Una cifra che per raggiunge gli 11.500 euro per gli studenti dei licei, ha sottolinea l’Ocse.

Il confronto

Come raccontano i dati della Ragioneria dello Stato, ripresi sulle colonne del Sole 24 Ore, il Ministero dell’istruzione, dell’Università e della Ricerca è “l’impresa italiana con il maggior numero di dipendenti”. Una situazione che si ripercuote sui costi della macchina, dominati dalla voce “stipendi”.  Le cifre sono state sintetizzate dall’Ocse e sono relative al 2015: gli investimenti a per l’istruzione nel periodo è stata di 67,4 miliardi di euro, pari al 4,1% del Pil e all’8,1% della spesa pubblica, dati inferiori alla media dei Paesi più industrializzati. Nello stesso periodo, infatti, il governo tedesco ha rispettivamente il 4,5 e 10,3, in Francia 5,5, e 9,7, in Inghilterra 5,7 e 13,1, in Spagna 4,2 e 9,5. Insomma, mentre sia la media dei Pasi Ocse, sia quella dell’Unione europea sono sempre salite negli anni, in Italia si è assistito ad un progressivo abbattimento della spesa per la scuola. Oggi, solo Grecia ed alcuni stati dell’Europa dell'est spendono di meno di noi. Contestualmente, il rapporto insegnanti/alunni si è mantenuto al di sotto della media europea, con un orario di servizio più basso che negli altri Paesi. Per questa ragione il ministero, raggiunto l’accordo con la rappresentanza sindacale, ha scelto di indire due concorsi che dovrebbero reclutare quasi 72mila insegnati il prossimo anno, arrivando a 100mila assunzioni entro il 2023.

I risultati

Nelle statistiche pubblicate da Eurostat, i risultati fatti registrare dalla scuola nostrana non sono lusinghieri. In particolare, solo nel 2018 gli early school leaver (le persone di età compresa tra 18 e 24 anni che ha completato al massimo l'istruzione secondaria inferiore e non sono coinvolte in un percorso scolastico, universitario o formativo) nel nostro Paese sono stati il 14,2%. Soltanto Romania, Malta e Spagna fanno peggio. Un dato che rende impossibile il raggiungimento dell’obbiettivo di contenere la dispersione scolastica italiana entro il 10%, come vorrebbe l’agenda strategica Europa 2020, sottoscritta da Roma 10 anni fa.

Ma cosa dicono i dirigenti scolastici che ogni giorno si confrontano con  questi numeri? Alla vigilia dell’esame di maturità In Terris ha intervistato la dirigente scolastica Anna Maria Bax.

I maturandi sono più tranquilli, licei e istituti tecnici bocciano sempre di meno. In Italia si è passati dal 17% di bocciature nel 2012, al 7,1% di oggi. Perché?
“La crescita dei promossi e degli studenti che concludono positivamente l’anno, o che accede all’esame conclusivo del ciclo di studi della scuola secondaria superiore italiana è da ricondurre, a mio avviso, a percorsi di istruzione e di formazione che la scuola negli anni è riuscita a mirare. Mi spiego meglio: negli anni è diventata molto più attenta al percorso formativo del singolo alunno e cerca di valorizzare tutte le esperienze dello studente, cercando di recuperare la situazione di svantaggio. Pensiamo a tutta la normativa sui Bes (bisogni educativi speciali) che recentemente ha portato la scuola a impegnarsi in maniera mirata, puntuale e specifica in tutte quelle situazioni di svantaggio che l’alunno vive dal punto di vista culturale, sociale e familiare. Una legislazione studiata per recuperare questo gap. Insomma, la scuola si impegna a costruire un percorso formativo individualizzato e mirato con un atteggiamento di recupero e promozione delle esperienze degli studenti, dando un sostegno al suo percorso formativo. Quindi, il dato numerico va letto confrontandolo con questo rinnovato impegno del Ministero”.  

Tuttavia, il numero di laureati è il penultimo dell'Ue. Come mette in relazione questi due dati che apparentemente sono in conflitto?
“A mio avviso bisogna interrogarsi su quanto sia efficacie l’orientamento offerto agli studenti in uscita dalla scuola. Io credo sia questo l’aspetto investire di più e meglio. È importante, secondo me, non relegare questa attività solo all’ultimo anno. Si tratta di un impegno da costruire lungo tutto il percorso del quinquennio, orientando meglio lo studente a capire quale sarà il suo futuro post diploma. Un’ultima riflessione: è anche l’università che deve rivedere alcuni aspetti. In particolare, il modo in cui gli studenti vengono accolti. Anche il mondo accademico deve investire di più e meglio nell’attività di orientamento. Forse sarebbe utile costruire percorsi di ri-orientamento rispetto alla facoltà scelta. Per superare queste difficoltà, è auspicabile una conduzione comune tra università e scuole secondarie”.      

Quindi è sufficiente un cambio di strategia per efficientare la scuola italiana?
“Si, un cambio di ottica è fondamentale in questo senso”.  

La scuola italiana fa registrare una performance negativa per quello che riguarda la dispersione scolastica. I giovani tra 18 e 24 anni che non studiano e non lavorano son il 14,2% del totale. Peggio di noi solo Romania, Malta e Spagna. Come si spiega questi numeri?
“Sicuramente le condizioni economiche e le peculiarità di alcune aree del Paese hanno un effetto sulla dispersione scolastica: i giovani, figli di famiglie a basso reddito che lasciano la scuola per provare una carriera lavorativa sono parte del fenomeno. Credo però che per risolvere il problema in maniera definitiva bisogna investire molto sul piano prettamente educativo, aldilà delle difficoltà oggettive che ci sono, rilanciando l’importanza sociale del percorso di istruzione a tutti i livelli. Un impegno che sta diventando veramente molto ampio. Le stesse famiglie devono recuperare l’importanza della scuola per i loro figli. La dove si verifica una dispersione scolastica così elevata è perché viene meno l’alleanza e la cooperazione tra l’istituzione e i nuclei familiari. Questo problema va letto anche sotto l’aspetto educativo. Si deve tornare a marciare insieme. Un dato culturale che da diversi anni sta venendo meno”.

Si riferisce anche ai fenomeni di violenze subite dai professori?
“Esattamente”.

Quindi la scuola deve insegnare e la famiglia deve educare?
“No, anche la scuola educa. La famiglia è la prima e fondamentale agenzia educativa. La scuola subentra successivamente. Sono due agenti fondamentali che non possono essere disgiunti. Per combattere la dispersione scolastica e i fenomeni di violenza è necessario ricostruire il partenariato tra scuola e famiglia. Temo che questa necessità non sia così condivisa. È chiaro che laddove si recupera convintamente questo rapporto da un punto di vista culturale, riprende quota anche il valore della frequenza scolastica”.

Europa 2020, un patto europeo sulla sostenibilità firmato nove anni fa, che ci imponeva di contenere la dispersione scolastica entro il 10%, un dato che sarà impossibile raggiungere nel giro di pochi mesi…
“Il fenomeno è figlio di una complessità sociale che ormai è diffusa in tutti gli aspetti della nostra vita. La scuola non fa eccezione. Occorre rivedere i gli strumenti specifici mirati verso la dispersione scolastica. A mio avviso, serve un cambio di rotta culturale nella società italiana contemporanea. Diversamente non se ne esce: se non si riconosce la valenza educativa della scuola, il problema non sarà risolto”.   

I due concorsi indetti dal Miur secondo lei sono sufficienti per compiere questo “cambio di rotta” di cui parla?
“Assolutamente si. L’investimento dei diversi concorsi significa nuove forze fresche che gioveranno all’intero sistema”.