Terremoto. Dov’era Dio? L’appello della ragione e la fede di fronte dal mistero del male

Turchia
Gli effetti del terremoto in Siria e Turchia

O Dio non è onnipotente, o è un cinico mostro. In alternativa, non esiste. Se la fede ci dice che Dio esiste ed è un padre buono e misericordioso, previdente, che prende per mano e guida con amore le sue creature, lo scandalo del male capovolge la questione in maniera brutale. Se Dio esiste e permette il male non è onnipotente o non è buono. Ad ogni modo avrebbe delle spiegazioni da darci.

La filosofia moderna si è confrontata in questi termini col male e il dolore. È il campo della “teodicea” (termine coniato da Leibniz nel XVIII secolo) quella branca del pensiero che pone la questione della giustizia di Dio di fronte alla presenza del male; essa cerca la coerenza, o giustizia, della storia partendo dal presupposto dell’esistenza di un Dio saggio che sceglie sempre il meglio possibile e di alcune verità fondamentali e immutabili. Così l’uomo ha cercato di offrire di volta in volta delle risposte alla domanda sul mistero del male, specie al male inflitto agli innocenti. Quando tutto crolla e il frastuono lascia spazio al silenzio si barcolla nel buio, si cerca un appiglio, ci si aggrappa al muro per rialzarsi, si cerca una certezza. Solida ed incrollabile. Unde malum?

Il terribile terremoto che in pochi istanti ha mietuto circa quarantamila morti in Siria e Turchia (un numero ancora in ascesa) presenta in tutta la sua crudezza e crudeltà il dramma della sofferenza degli innocenti. Nel silenzio di Dio è l’uomo a dover parlare e domandare: “Dove sei?” Un grido che i biblisti paragonano a un ruggito. “Perché nascondi il tuo volto?” (Gb 13,24). “Non ti importa che moriamo?” (Mc 4,38), chiedono i discepoli al Maestro che dorme, atterriti di fronte alla tempesta. Dov’è Dio nel terremoto, nella tempesta?

Se Dio non esiste la domanda non si pone. Il mondo (inteso in senso giovanneo) – ateo e nichilista – non si pone il problema di Dio di fronte al male perché un Dio non c’è e l’uomo è abbandonato al suo fatale destino. Al contrario, il dilagale del male può rappresentare per il mondo una giustificazione e una prova del suo ateismo nell’impossibilità di trovare risposte e di intravedere una giustizia nella storia. Da tempo il mondo ha sepolto Dio nei ricordi di infanzia. Da tempo lo ha rimesso nel cassetto tra i gadget in disuso. Da tempo lo ha considerato fuori moda e relegato a vecchia credenza ancestrale. È servito finché è servito. A tenere unite le famiglie, a regalare intime speranze e illusioni, a salvare gli uomini dalla follia, regalando loro una valvola di sfogo, una via di fuga dalla dura realtà della povertà, della guerra, della fame, della morte. Ma il tempo delle favole è finito. Ormai la teodicea non va più di moda e i filosofi si occupano di altro. Dei due termini dell’argomentazione (Dio e il male) ne è rimasto solo uno: il male nella sua crudeltà, nel suo mistero. Non c’è più un Dio da difendere, da interpellare o, tantomeno, da invocare. Tutto è fato, destino. Da accettare con rassegnazione.

Se Dio non esiste il suo nome nulla ha a che vedere con la tragedia. E dunque via alla gara di solidarietà verso i disgraziati, agli aiuti, ai messaggi di cordoglio, alle collette e alle maniche rimboccate. Solidarietà umana che gli dei (se solo esistessero) se la sognano. E poi, via alle accuse, le indagini, i capri espiatori. Cercare colpe è un alibi. Un bicchiere di limonata fresca nell’arsura del deserto. Fa stare bene e consola, per quello che si può. Poi le speranze, i proclami, le assicurazioni: “Mai più!”. Fino al prossimo inevitabile cataclisma. Fino al prossimo inevitabile bombardamento. Da condannare con decisione.  Con commozione.

Nessun editoriale sui nostri giornali ha posto la domanda su Dio. Domanda soffocata? Oppure considerata inutile. Infantile. Il vero dramma del pensiero moderno, il divorzio tra fede e ragione, ha sentenziato la morte della teodicea. Vuoto fideismo da un lato, razionalismo autoreferenziale dall’altro. Difesa ad oltranza del nostro Dio (così come lo immaginiamo) oppure eclisse totale della possibilità di senso al di fuori dei limiti della ragione. La scomparsa delle verità fondamentali ed eterne ha condannato la filosofia all’autoreferenzialità. La ragione, castrata dal divorzio con la fede, si illude di non aver bisogno di Dio e di non dover dare risposte fuori dal ristretto campo del tangibile e calcolabile. La fede senza ragione si limita a buoni pensieri e silenzi assordanti. Distratti, incompiuti. A queste condizioni la teodicea è perduta, scomparsa (cfr. A. Gatto, La théodicée perdu, Parole et Silence, 2022)

Ma se Dio c’è e tace è l’uomo a dover parlare perché il silenzio reiterato di Dio condanna l’uomo al non-senso. Per questo l’uomo che crede interpella Dio: “Dio, non startene muto, non restare in silenzio e inerte, o Dio” (sal. 83). Non perché gli manchi di rispetto. Non perché non lo consideri Signore dell’universo. Ma al contrario. Dio non ha bisogno di avvocati difensori, potrà difendersi da sé. Esporre le sue ragioni. Lui solo, che creò la luce, può illuminare di senso la storia.

Oppure alla magnificenza e la gloria di Dio basta una statua rimasta intatta dopo il sisma o una persona salvata in extremis tra migliaia di morti? Oppure il ravvedimento, la conversione di uno, cento, mille esseri umani vale lo sterminio di quarantamila vite e migliaia di famiglie, senza che l’immagine di Dio venga per questo scalfita? Per il credente il male non è la conseguenza di una fatale distrazione di Dio, né Dio si diverte a “giocare a dadi” col mondo. “Dio non gode per la rovina dei viventi” (Sap. 1,13).

Per questo Giobbe, il giusto sofferente per antonomasia, lo interpella. Lo sfida. Porta Dio sul banco degli imputati, lo cita a giudizio, gli invia un ordine di comparsa per affrontarlo in un doloroso corpo a corpo. I biblisti definiscono questo particolarissimo processo un “rîb” e insegnano che può essere una chiave di lettura per capire molti passi, apparentemente oscuri, dell’Antico Testamento (cfr. Salvatore Maurizio Sessa, Quando Dio non perdona, EDB 2021). Può Dio esimersi dal rendere ragione del suo operato? È forse un idolo muto? Non tiene forse al suo buon nome?

Gli amici di Giobbe giustificano Dio, lo difendono. Giobbe lo accusa e lo interpella. Chi tra loro dimostra di avere fede in Lui? Può l’Onnipotente aver bisogno che l’uomo lo difenda? La difesa degli amici rappresenta piuttosto la difesa di un’idea di Dio, per preservare un sistema che inquadra la fede entro dei limiti sicuri al fine di evitare ogni possibilità di crisi.

Di fronte alla tragedia, al misterioso male ingiustificato, la fede può offrire qualche risposta? Per una fatale (perché non è giusto dire “felice”) coincidenza, mentre chi scrive iniziava ad elaborare questa riflessione, è stato pubblicato libro “Nella tempesta Dio. Sul dolore tra bibbia e filosofia” (San Paolo 2023) scritto da un biblista e un filosofo, don Francesco Voltaggio e il prof. Francesco Paolo Ciglia. Fede e ragione, teologia e filosofia, si interrogano di fronte al mysterium iniquitatis cercando di tendere un ponte che permetta di aprire degli orizzonti di senso nella notte esistenziale della sofferenza degli innocenti senza la pretesa di offrire risposte o soluzioni. Consapevoli che sono più le domande che le risposte ad emergere con prepotenza, gli autori scansionano la tradizione sapienziale biblica, in particolare il libro di Giobbe in cui il giusto sofferente sfida Dio portandosi al limite della blasfemia. Alla luce della sapienza biblica e del patrimonio filosofico, in particolare della riflessione dell’intellettuale ebreo André Neher (1914-1988), il libro intende indagare sulla questione del male ripercorrendo il tortuoso cammino che il pensiero degli ultimi due secoli (filosofico, teologico e letterario) ha intrapreso per cercare vie d’uscita dall’assurdo del non senso.

Di certo il credente ha il diritto di interpellare Dio nella tempesta. «Per un credente, Dio, pur non volendo mai direttamente il male né fisico né morale, rimane pur sempre la prima causa di tutto. Se si indagano solo le cause del male, Dio dovrebbe comunque giustificare perché lo permette. Dinanzi all’estremo del male e alla somma sofferenza, ogni spiegazione rimane insoddisfacente» (p. 129).

Solo interpellando e chiamando in causa Dio, l’uomo avrà la possibilità di incontrarlo, come Giobbe lo incontra nella tempesta del dolore. Nonostante tutto le domande restano aperte come afferma Fabrice Hadjadj nell’introduzione: «La rivelazione biblica non viene a dare risposta alle nostre domande, ma a dare l’avvio a domande che non ci saremmo mai posti senza di essa. Invece di risolverlo, viene a scavare all’infinito le profondità del problema. Le piaghe del Risorto non si chiudono» (p. 6).

È, in ultima analisi, nella croce di Cristo, culmine di ogni sofferenza umana, che il cristiano è chiamato a trovare un senso alle proprie sofferenze e a quelle del mondo intero. Lì dove il silenzio di Dio e il grido dell’uomo (“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” Sal 22,2; Mt 27,46) arrivano al punto più drammatico contenendo il grido e il silenzio dell’universo. Il pensiero umano può trovare delle risposte consolatorie (Boezio, De consolatione philosophiae) ma si tratta di risposte provvisorie e mai definitive che non possono risolvere e saziare la domanda di senso.

Si tratta dunque di interpellare Dio e di rimetterlo al centro della storia. E del dolore. Affinché si faccia presente nel mezzo della tempesta e del terremoto che fa tremare le fondamenta della nostra fede. Scrive don Voltaggio: «La sofferenza non può essere risolta dalle spiegazioni, nemmeno dalle più raffinate dal punto di vista teologico. Spesso, infatti, incappiamo nella tentazione di voler spiegare frettolosamente il dolore e il male del mondo. Ci può capitare di difendere Dio non perché siamo veri credenti, ma paradossalmente perché siamo scandalizzati dalla sofferenza e, quindi, per la nostra poca fede. Ci atteggiamo ad avvocati di Dio per difendere, in fondo, la nostra causa, per sentirci rassicurati in un sistema ordinato di pensiero, che invece proprio la sofferenza scardina e mette in crisi. (…). Come cristiani, però, siamo chiamati non a giustificare l’assenza di Dio, ma a testimoniare la sua presenza» (pp. 112-113).