Smettiamo di usare il termine “disabile” come un’etichetta omnicomprensiva

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Foto di Gerd Altmann da Pixabay

Mi rivolgo a voi non solo come voce di un singolo ma come eco di un’intera comunità che, troppo spesso, viene racchiusa in una parola che rischia di appiattire la ricchezza e la complessità delle loro esistenze: “disabili”. È tempo di riconsiderare il nostro linguaggio, di modellarlo non sulla limitazione, ma sul rispetto e sulla potenzialità di ogni individuo. Chiamiamoli per ciò che sono: persone con disabilità. Quando etichettiamo qualcuno semplicemente come “disabile”, cosa rimane della sua identità? Dove sono i suoi sogni, le sue passioni, i suoi successi? E soprattutto, come si sente un giovane studente quando viene definito in base a ciò che gli manca piuttosto che a ciò che possiede?

Immaginate un ragazzo che ogni giorno si siede in un’aula scolastica. È intelligente, curioso, e dotato di un umorismo che illumina la stanza. Questo ragazzo, però, usa una sedia a rotelle. Quando viene chiamato “disabile”, la prima cosa che la gente vede è la sedia a rotelle, non il suo sorriso, non la sua mente brillante, non il suo spirito indomabile. Ma se scegliamo di chiamarlo “persona con disabilità”, mettiamo la persona prima di ogni cosa. Prima della sedia a rotelle, prima delle barriere, prima delle limitazioni.
Questo non è solo un gioco di parole, è una questione di visione umana. C’è una distanza abissale tra vedere qualcuno per ciò che non può fare e riconoscerlo per ciò che può. Se continuiamo a usare il termine “disabile” come un’etichetta onnicomprensiva, facciamo un grande torto alla diversità e alle capacità individuali.

Cambiare il nostro linguaggio è il primo passo verso il cambiamento della nostra percezione. Le parole hanno il potere di costruire ma anche di distruggere; possono aprire porte oppure erigere muri. Chiamare qualcuno “persona con disabilità” non nega la sua condizione, ma pone l’accento sulla sua umanità, sull’essere persona prima di tutto. Sì, il cambiamento può essere scomodo. Richiede riflessione, richiede di sfidare l’abitudine e l’accettazione passiva di ciò che è stato sempre così. Ma è necessario. È necessario per quel ragazzo con disabilità motoria (non handicappato o in sedia a rotelle), per quella ragazza con disabilità visiva (non orba)…, per ogni individuo che desidera essere visto per quello che è: una persona piena di potenziale.

Quindi vi chiedo, politici, educatori, giornalisti, e cittadini di ogni città e paese: prendiamo un impegno per modificare il nostro linguaggio e, di conseguenza, la nostra percezione delle persone con disabilità. È un piccolo cambiamento nel modo di parlare, ma può essere l’inizio di una grande trasformazione nel modo di pensare. Non chiamiamoli più “disabili”. Chiamiamoli per quello che sono: persone, non tanto diverse da te o da me, con sogni, desideri e diritti. Persone che meritano rispetto, inclusione e pari opportunità. La nostra lingua deve riflettere la nostra etica; deve essere portatrice di rispetto e riconoscimento. Con speranza e determinazione per un futuro più inclusivo.