L’eredità che ci ha lasciato Giovanni Paolo II

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Il 27 aprile, nella Basilica di San Pietro, verrà celebrata una Messa per i dieci anni della canonizzazione di San Giovanni Paolo II. A presiederla sarà cardinale Giovanni Battista Re, decano del Collegio cardinalizio. Il 2 aprile del 2005 era un sabato. Karol Wojtyla sussurrò a suor Tobiana: “Lasciatemi andare dal Signore”. Poi, il suo cuore si fermò. E, già qui, c’era una prima eredità che Giovanni Paolo II lasciava: da uomo, prima che da Papa. E cioè, lui che era stato acclamato come “John Paul Superstar” come “il Papa globetrotter”, vigoroso, atletico, osannato in tutto il mondo, e ora invece era un povero vecchio impedito di camminare, impedito di parlare, ebbene, voleva ricordare – a una società ossessionata dal vitalismo, dall’efficientismo, dalla sublimazione del corpo – come si possano vivere le diverse stagioni della vita con dignità, con serenità.

E, soprattutto, come si possa affrontare con coraggio anche una prova così sconvolgente, così “definitiva”, come la morte. In tanti gli chiedevano di diradare le apparizioni pubbliche. Il Papa si rendeva perfettamente conto del suo stato di salute, ma che avrebbe dovuto fare, chiudersi in Vaticano? Una volta, a padre Roberto Tucci, organizzatore dei viaggi papali, aveva detto: “Crede che non mi veda in televisione come sto combinato. Ma se nascondessi la mia infermità, non finirei anche per nascondere il mio ruolo di pastore, per separarmi dalla gente?”. Prima ancora di compiere gli ottant’anni, aveva chiesto agli esperti se fosse stato il caso, in quelle condizioni, di dare le dimissioni; e, dopo la risposta negativa (comunque aveva predisposto ugualmente tutto, nel caso ce ne fosse stato bisogno), decise di fronte a Dio di proseguire la sua missione, almeno fino a quando ne avrebbe avuto le forze. Così, aveva continuato ad assolvere i suoi impegni, senza mai far pesare la sua malattia, le sue sofferenze, sulla Curia, sulla Chiesa universale. Resistette fin quando potè. Per la prima volta, non ce la fece a partecipare alla Via Crucis al Colosseo. A Pasqua, si affaccio alla finestra dello studio, ma non riuscì a pronunciare la benedizione. Sentendo avvicinarsi la fine, volle congedarsi da tutti i suoi collaboratori, e anche da Francesco, l’uomo che curava la pulizia nell’appartamento pontificio.

Quel 2 aprile di 19 anni fa era la vigilia della festività della Divina Misericordia. Difficile pensare che fosse stata solo una “coincidenza”. Era stato lui, Giovanni Paolo II, a riscoprire e rilanciare quello che è uno degli attributi centrali di Dio e del suo amore senza confini. Era stato lui, a istituire quella festa. Era stato lui, a dedicare alla Misericordia il suo miglior documento, la lettera apostolica “Dives in Misericordia”; e dove c’era, in controluce, il senso profondo della sua vita e del suo progetto di rinnovamento della Chiesa. Molto in sintesi, la “Dives in Misericordia” era un invito alla Chiesa molto diretto, molto esigente. Un invito, non solo a professare la misericordia di Dio, non solo a immetterla nella vita dei fedeli; ma anche, se la Chiesa vuole essere veramente specchio fedele di Cristo, tornare a mostrarsi più misericordiosa, più pronta al perdono: “Non le è lecito, a nessun patto, di ripiegarsi su se stessa. La ragione del suo essere e, infatti, quella di rivelare Dio”.

Nessuno si era accorto che Giovanni Paolo II già nel 1991 fosse stato colpito dal morbo di Parkinson. O, almeno, il tremore che accusava ad alcune dita della mano sinistra era un sintomo tipico di quella malattia. E del resto, all’inizio, anche lui non aveva dato molta importanza alla cosa, solo più tardi ne avrebbe parlato al suo medico. Ma poi c’era stata l’operazione per il tumore all’intestino. Quindi, oltre all’insorgenza di problemi osteoarticolari, cominciavano ad avvertirsi le conseguenze di quei due colpi di pistola sparati da Ali Ağca. E intanto, il Parkinson aveva ripreso, ma stavolta quasi con ferocia, a devastare quel povero corpo. Perdite di equilibrio, cadute, difficolta a camminare, prima il bastone, poi la sedia a rotelle, un volto che diventava sempre meno espressivo, non rideva più, infine la tracheotomia, che gli permetteva di respirare, questo sì, ma lui non riusciva più a parlare. Un martirio, un autentico martirio.

E tuttavia, Karol Wojtyla aveva continuato la sua missione: i viaggi internazionali, lunghissimi, faticosissimi, le udienze generali, le visite alle parrocchie romane, gli incontri quotidiani con personaggi o gruppi venuti da tutto il mondo. Ma come faceva a sopportare quei dolori spesso terribili? Aveva imparato a dare spazio alla sofferenza, e perciò a convivere con il dolore, con la malattia. Senza neppure nascondere i suoi mali, come aveva fatto all’Angelus di quel luglio del 1992, confidando ai fedeli che la sera si sarebbe ricoverato al Gemelli per accertamenti. E ne parlava non certo per esibizionismo, ma sia per dimostrare il valore salvifico, il posto che ha la sofferenza nella vita di ogni giorno; e sia per rivendicare il valore e il ruolo di ogni persona, anche malata o minorata, nella società.