S. Egidio, 50 anni al servizio della pace

Il 7 febbraio di 50 anni fa alcuni liceali, guidati dall’allora diciottenne Andrea Riccardi, studente del “Virgilio” davano vita a Roma a un movimento laicale nella linea del Vangelo e sulla spinta del rinnovamento conciliare. Era l’embrione di quella che sarebbe diventata la Comunità di S. Egidio. A quell’epoca i giovani si riunivano per pregare e per aiutare gli emarginati, i poveri, quelli che oggi Papa Francesco definirebbe “scartati” dalla società. Nasce così la prima “scuola della pace”, tra le baracche di Ponte Marconi, vicino al cinodromo. Seguiranno i famosi pranzi nella basilica di S. Maria in Trastevere, dove era parroco don Vincenzo Paglia, attuale presidente della Pontificia accademia della vita, e decine di altre attività, dall’aiuto ai senza tetto alle mense per i poveri alle iniziative per la pace, il cui fiore all’occhiello è senza dubbio la trattativa per la pacificazione del Mozambico di cui fu protagonista un altro prete della Comunità, Matteo Zuppi, attuale arcivescovo di Bologna. Tra le iniziative in programma per festeggiare questo giubileo ci sono la S. Messa che sarà celebrata il 10 febbraio alle 17.30 nella Basilica di S. Giovanni in Laterano, presieduta dal Segretario di Stato cardinale Parolin, e una serie di incontri con personalità religiose, come quello, già effettuato, con il grande imam di Al Azhar, Ahmad al Tayyeb, e con il gran rabbino di Francia Sirat e il cardinale Kasper, presidente emerito del Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani.

Dal 2003 il successore di Riccardi come presidente di S. Egidio è Marco Impagliazzo, romano, 56 anni, docente di Storia contemporanea all’Università per stranieri di Perugia, che ha accettato di parlare della Comunità con In Terris.

Qual è la più grande soddisfazione di questi 50 anni di vita?

“Non è una domanda facile… Direi aver fatto scoprire la gioia del Vangelo a tanta gente”.

E il più grande rammarico?

“Aver visto tanti morire nel Mediterraneo e nel deserto. Non è colpa nostra ma si può sempre fare di più”.

I Pontefici hanno sempre dimostrato la loro benevolenza alla Comunità ma i detrattori vi accusano di cercare potere all’interno della Chiesa. Cosa replicate?

“Il potere nella Chiesa non è un nostro obiettivo né è mai stata una nostra priorità. Quello che abbiamo sempre cercato di fare è di essere in comunione profonda con il Vescovo di Roma, in tutte le diverse situazioni e con tutti Pontefici che venivano da storie personali diverse, da percorsi umani diversi ma con i quali c’è sempre stata piena comunione. Ci si è incontrati alle sorgenti della vita cristiana e del Vangelo. Non c’è mai stata una visione ‘politica’ di potere nella Chiesa. Quando c’è sintonia con il Papa è perché la fonte è la stessa”.

E’ ancora valida la definizione di Onu di Trastevere? E come sono i rapporti con la diplomazia della S. Sede, alla luce di qualche attrito in alcune situazioni del passato?

“E’ una definizione molto simpatica, che dà l’idea di qualcosa di casareccio, di informale, di semplice ma è vera nel senso che si sono moltiplicati i luoghi dove la Comunità è chiamata ad intervenire per custodire la pace o per promuoverla o per portare sollievo in tante situazioni di violenza diffusa. Penso al grande lavoro delle nostre ‘scuole della pace’, soprattutto in Centro America e in Africa per liberare i bambini e i ragazzi dal demone della violenza. Con la S. Sede i rapporti sono ottimi da questo punto di vista perché noi informiamo sempre delle nostre azioni quando ci sono situazioni che la riguardano. Va anche detto che c’è la libertà dei cristiani di lavorare per la pace: dovrebbe essere una vocazione di tutti i cristiani. Bisogna pure sottolineare che la S. Sede, tranne rarissimi casi, non ci ha mai coinvolto direttamente in operazioni di pace. Ci siamo sempre presi la nostra responsabilità di cristiani, senza alcuna investitura ufficiale”.

L’impegno della Comunità per la ricerca della pace e sul piano sociale a favore degli ultimi ha un inevitabile impatto politico. Cosa manca alla politica oggi?

“Manca l’ascolto profondo della realtà, delle domande della gente, in particolare dei più poveri. Inoltre, manca un linguaggio adeguato ai tempi che stiamo vivendo, che dovrebbe unire e invece tante volte il linguaggio della politica separa o cavalca le paure. Manca questo lavoro di ricucitura della società, come ha ricordato il cardinale Bassetti all’ultimo consiglio permanente della Cei”.

Tra un mese in Italia ci saranno le elezioni. La Comunità avrà un ruolo? E cosa vi aspettate dal Parlamento sui temi a voi cari: poveri, anziani soli, migranti e rifugiati?

“Guardiamo con grandissimo interesse a queste elezioni, con partecipazione, con attenzione ai programmi. La Comunità non è un partito politico e non si schiera. Ci sono alcune persone della Comunità che hanno scelto questa strada e si presentano alle politiche e alle amministrative. Ma sono libere scelte personali di impegno nel mondo della politica di poche unità rispetto alle migliaia di persone della Comunità. Quello che ci aspettiamo è che il Parlamento lavori per esempio sullo ‘ius culturae’ per l’inserimento dei bambini figli di stranieri in Italia; una scelta radicale di attenzione agli anziani perché possano vivere dignitosamente gli ultimi anni della loro vita, rimanendo a casa; e, soprattutto nelle grandi città, contiamo che sia sollevato in maniera forte il tema abitativo, perché ci sono migliaia di persone in situazioni di precarietà”.

Com’è la vita della Comunità a 50 anni dalla sua fondazione? Qualcuno in passato vi ha accusato di prendervi delle “licenze” in materia di sacramenti e liturgia.

“La Comunità è un’associazione pubblica di fedeli laici e vive il cammino pieno della Chiesa in obbedienza al Papa e ai vescovi e ai dettami del Concilio Vaticano II. Per tanti versi è un riferimento per molti, anche lontani dalla Chiesa. Ci teniamo al fatto che in tutte le nostre comunità ci sia la preghiera della sera e che i nostri luoghi di culto siano aperti a tutti, sempre: penso che sia bello che proprio mentre le chiese chiudono e la gente esce dal lavoro sia possibile trovare una chiesa aperta per pregare”.

Siete in prima fila nel dialogo ecumenico e interreligioso. In Italia c’è un diffuso sentimento di sospetto, se non proprio di avversione, nei confronti dei musulmani, comprensibile visti i ben noti fatti internazionali. E’ possibile cambiare questo stato di cose?

“Credo che dobbiamo passare dalla percezione dei fenomeni alla conoscenza della realtà dei fenomeni. In tutte le inchieste è emerso che gli italiani sono quelli che hanno il maggior divario tra livello di percezione e realtà della situazione. Pochi sanno quanti sono i musulmani in Italia, pochi conoscono la vita che fanno e così via. C’è molto pregiudizio. E’ chiaro che vivere insieme è complesso e complicato. Sono stato molto contento che il Papa in occasione della Giornata del Migrante abbia sollevato nell’omelia il tema delle paure dei cittadini. Di fronte a un mondo che cambia è normale che si abbia paura; il problema è non cavalcarla ma dare spiegazioni e indicare delle vie. Il nostro grande impegno nelle periferie è, a partire dai bambini, dalla rete molto ampia di scuole della pace, di far crescere i giovani nell’idea che tutti devono vivere insieme, che non c’è esclusione, non c’è discriminazione, né per il colore della pelle, né per la religione, né per altri motivi. Bisogna anche far sapere agli italiani che non c’è un’invasione musulmana in Italia. La presenza di stranieri ha comportato una crescita delle comunità cristiane piuttosto che di quelle islamiche, in particolare di ortodossi, che andrebbero invece valorizzate. E poi molti italiani non sanno che in generale il tasso di natalità tra i musulmani si sta abbassando, soprattutto in Occidente, a imitazione di quanto sta accadendo nella nostra cultura, e questo contribuisce a smitizzare la presunta invasione islamica. In ogni caso vivere insieme è una sfida che non va affrontata con la paura ma sviluppando politiche di integrazione serie, a iniziare dai bambini”.

Da pochi giorni è stata celebrata la Giornata della Memoria: avvertite un reale ritorno dell’antisemitismo? E come si può contrastare?

“Purtroppo sì. In questa società in cui mancano discorsi fondamentali, in cui sono venute meno le reti in cui eravamo abituati a crescere, come partiti, grandi sindacati, realtà aggregative (e che per inciso sono una grande domanda per la Chiesa oggi: cosa vuol dire aprire le parrocchie e non aspettare che venga la gente…) c’è un certo sbandamento in tanti giovani, influenzati dal mondo di internet e dei social media, che spesso veicolano discorsi senza senso come sono quelli razzisti e antisemiti. Il tema va sempre messo all’ordine del giorno: nonostante siano passati 80 anni dalle leggi razziali e 73 dalla liberazione del campo di sterminio di Auschwitz, il problema non è far perdere forza alla memoria ma sviluppare una memoria che ci aiuti a vigilare su tali questioni”.

Sono trascorsi i primi 50 anni: qual è il sogno, l’aspirazione più grande per i prossimi?

“Il sogno più grande è quello di far crescere la pace nel mondo: in questo mondo della terza guerra mondiale a pezzi c’è un grande desiderio di pace. L’altro è quello di creare società in cui si possa vivere insieme nel mondo della globalizzazione, senza paure”.