IL PROFESSORE “RIVOLUZIONARIO”

Ha trascorso una vita a indagare sul passato prima di iniziare a scrivere il futuro del proprio popolo. L’ambasciatore albanese Neritan Ceka, sposato, padre di tre figli, professore universitario e archeologo di chiara fama, nel dicembre 1990 con i suoi studenti ha partecipato al “movimento di dicembre” per il rovesciamento della dittatura in Albania. E’ stato ministro dell’Interno e quattro volte membro del Parlamento. E’ uno dei più strenui sostenitori del modello di convivenza pacifica etnico-religiosa di cui l’Albania è modello.

Ci descrive la sua Albania da bambino?
Mi ricordo la piccola strada dov’era la casa dove sono nato, nel 1941. Ci sono tornato dopo 50 anni, e l’ho trovata così piccola, anche le case sembravano giocattoli. Poi ho il ricordo del giorno della liberazione di Tirana, quando sono entrati i partigiani nella capitale. Poi gli anni difficili che seguirono, senza nulla da mangiare; a scuola davano razioni di latte in polvere e acqua, e un po’ di margarina. Si pativa, certo, ma c’era anche gioia: seguivo mio padre archeologo nelle sua campagne di scavi; e lì stavamo bene, lontani dalla nostra miseria, in un villaggio dove c’era pane, burro, formaggio, latte.

La passione per l’archeologia dunque le è nata da piccolo. E quella per la politica?
In realtà la politica non mi ha mai interessato. Per la mia famiglia poi era vietata, mio zio è stato in prigione per 25 anni, noi eravamo marginalizzati. E di conseguenza molto prudenti. A novembre del ’90 i miei studenti di Archeologia Classica fecero una dimostrazione anticomunista alla quale partecipai. E da lì ho iniziato a fare politica, per vocazione intellettuale e patriottica, non per la carriera”.

Lei ha vissuto il periodo stalinista sia da studente sia da professore. Che margini di manovra intellettuale c’erano all’interno dell’Università?
Ogni dittatura ha due volti. C’è la facciata che è formale, anche pericolosa, poi però dietro c’è sempre una possibilità di lavorare. Agli intellettuali veniva data la chance di fare un ‘patto col diavolo’, di sviluppare il proprio talento contribuendo alla crescita della nazione.

Come è riuscito a muoversi all’interno del forte isolazionismo del regime?
Era una barriera, che però non risultava così impermeabile. Avevamo tanti contatti con le altre università, a cominciare dai libri. C’era un settore nella Biblioteca nazionale che veniva definita ‘riservata’, ma io sono riuscito a entrare anche in quella. Ho letto Dino Buzzati, che era vietato. Certo non potevo uscire dall’Albania, ma non era impossibile scambiare informazioni e lettere, naturalmente sempre controllate.

E quando è potuto uscire?
La prima volta che sono uscito dell’Albania avevo 40 anni, e sono venuto in Italia, e ho vissuto a pochi isolati dove adesso c’è l’ambasciata. Era maggio, e per la prima volta ho respirato l’aria della libertà, una primavera speciale.

Qual è il suo ricordo del rovesciamento della dittatura?
Una voce, anzi un coro. Io abitavo a Tirana vicino alla città degli studenti. Ci fu un periodo in cui migliaia di albanesi fuggirono attraverso le ambasciate, poi un altro di calma apparente, dove sembrava che gli anticomunisti non ci fossero più. Poi una sera ho sentito mille voci che venivano dalla città degli studenti, e ho capito che il grande momento era arrivato.

Era in programma la prima visita di un capo di governo Albanese nella capitale serba da 70 anni a oggi, ma non si è fatta. Che accade?
Sarà fatta il 10 novembre. La storia del drone sul campo di calcio con la bandiera albanese ha innescato una reazione inaspettata da parte di Belgrado. Non tanto dei tifosi serbi, che già si conoscevano, quanto nelle dichiarazioni retoriche della leadership serba, anche con espressioni offensive tipo quella del presidente che ha detto che agli albanesi non basteranno 5 secoli per diventare civili. Dichiarazioni fuori contesto rispetto all’attualità politica. Da parte albanese, comunque, si è scelta una linea anti-retorica e di dialogo. Ci sono tanti punti che uniscono i due stati, il resto dovrebbe essere considerata una cosa che appartiene al passato e non al futuro.

Spesso l’Albania è stata associata al concetto di criminalità. Lei che è stato ministro dell’Interno, come giudica questa immagine che il suo Paese ha avuto?
Anche questo ha una sua dinamica, e oggi la situazione è molto cambiata. In passato piccoli casi hanno dato un’immagine falsata di una nazione; dobbiamo considerare l’Albania come l’Italia degli anni 50 con tutti i fenomeni dell’epoca: istituzioni in formazione, sistema giudiziario, interferenze del mondo criminale. Non dobbiamo avere l’illusione che uno Stato che esce dalla dittatura e con tante difficoltà economiche possa essere uno Stato modello dall’inizio.

L’Albania oggi è in grande fermento economico. Cosa sta accadendo?
Due cose: le banche non sono molto potenti, così tutta l’economia albanese è basata sul cash, dunque siamo meno toccati dalla crisi finanziaria globale. Secondo poi c’è molta fiducia, tutte le persone vivono quell’entusiasmo che l’Italia visse negli anni 60. Tutti lavorano in qualunque posto capiti: anche uno studente laureato si impegna in agricoltura, oppure fa il muratore. Metà della nostra forza lavorativa poi è all’estero, lavora nei settori che ancora funzionano e ogni mese manda soldi.

Nel suo Paese convivono più confessioni religiose. Che tipo di rapporto c’è nel vivere quotidiano?
Prima del comunismo già c’erano tradizioni di convivenza. E d’altronde si parla di membri della stessa famiglia, parenti, che magari avevano religioni diverse. Per non parlare dei matrimoni misti. Dunque l’appartenenza alla terra – anche in considerazione dell’aggressività di alcuni stati confinanti – è stata sempre più viva delle differenze religiose.

Cosa ha significato la visita di Papa Francesco? Cosa ha lasciato?
Dopo quella storica di Giovanni Paolo II, questa visita di Papa Francesco avviene in un altro momento importante, quando l’Albania è entrata nella Nato ed è candidata per l’Unione europea. Siamo diventati un modello di positività e di convivenza, in contrasto con un mondo non lontano, quello arabo, dove c’è uno spirito aggressivo verso le altre religioni portate dagli stessi arabi. La visita è stato un grande messaggio, visto che il Santo Padre è stato accolto dove vive un popolo a maggioranza musulmana.

Cosa le piace di più dell’Italia e cosa vuol dire fare l’ambasciatore qui?
Mi piace la natura, il cibo, il clima, i monumenti, ma credo che la bellezza principale sia il suo popolo. Ogni italiano ha una caratteristica tutta sua, che non somiglia a nessun altro. Può sembrare che siano tutti uguali, ma poi conoscendo si scoprono identità tutte diverse. Quanto all’incarico di ambasciatore, devo dire che qui in Italia è un lavoro facile: ho uno staff eccellente e vivo in un Paese che non dà motivi di preoccupazione.

In home page, nella sezione Interris tv, intervista all’ambasciatore Ceka