Cosa ci si aspetta da una legislatura orientata a una reale riforma della giustizia

La legislatura che si apre potrebbe essere quella di riforme finalmente condivise, oltre i confini della maggioranza uscita dal voto degli elettori. È da almeno un quarto di secolo, cioè dalla Commissione bicamerale degli anni 1997-98, che quasi tutte le forze politiche convergono su:

  • una vera e formale separazione delle carriere, a 33 anni dal vigore di un codice di procedura penale che ha trasformato il pubblico ministero in una parte, se pure pubblica, certamente non assimilabile al giudice. La riforma Cartabia 2021-22 ha compiuto un passo ulteriore rispetto alla riforma Castelli del 2006, consentendo un solo cambiamento dalla funzione requirente a quella giudicante; e però nel C.S.M. i P.M. continuano a essere eletti dai giudici, e viceversa, e ciascuno prosegue a occuparsi delle carriere degli altri. Quindi serve completare l’opera;
  • l’estrapolazione del giudizio disciplinare dal C.S.M., per affidarlo a un giudice non eletto con criteri correntizi, anzi non eletto per nulla, bensì nominato con criteri oggettivi, per sottrarre l’applicazione delle sanzioni ai condizionamenti dei gruppi di appartenenza. È una proposta condivisa da giuristi di area progressista, e addirittura ripresa nella trascorsa legislatura da iniziative legislative del PD;
  • l’adeguamento quantitativo degli organici dei magistrati e del personale di cancelleria, oggi mediamente pari alla metà degli organici degli altri Paesi UE. Non è chiaro perché sul punto non valgano i richiami all’Europa, soprattutto nell’attuale condizione di emergenza, per es. favorendo il transito nei ruoli a tempo indeterminato di almeno una parte dei 5.000 magistrati onorari: cioè di coloro che, pur smaltendo non pochi procedimenti penali e civili, lavorano per pochi anni con una bassa remunerazione;
  • la più precisa definizione di criteri di efficienza per la nomina dei capi degli uffici.

Volendo andare oltre l’ambito della magistratura, da una legislatura orientata a una reale riforma della giustizia ci si attende uno snellimento delle procedure, sia civile che penale, e una razionalizzazione dei reati dei pubblici amministratori, per superare l’incertezza quotidiana sulle scelte da operare, e al tempo stesso il frequente condizionamento dell’azione amministrativa derivante da paralizzanti iscrizioni nel registro degli indagati, seguite da assoluzioni a distanza di troppi anni, quando il danno è ormai provocato.

Sarebbe anche opportuno chiedersi perché, nonostante la larga condivisione, il sistema finora sia rimasto bloccato, e nessuna delle misure appena sintetizzate è andata in porto. Esistono varie ragioni, non ultima quella della presenza massiccia di magistrati all’interno del ministero della Giustizia: in questo momento essi sono 120, e per gran parte di loro è censibile l’appartenenza a questa o a quell’altra corrente. A chi sostiene che è necessario un contributo tecnico per la funzionalità del dicastero è agevole replicare che in quell’esteso schieramento di giudici vi è chi, per far un esempio fra i tanti, si occupa stabilmente di edilizia giudiziaria – area per la quale è arduo asserire che servano le competenze specifiche di un togato -, e che suona un tantino offensivo nutrire di fatto per il personale amministrativo una sorta di pregiudiziale di inidoneità a condurre un dipartimento o una direzione. Il contributo tecnico può esservi da parte di qualche singolo magistrato, non di una schiera così numerosa, e andrebbe spiegato poi perché non possa venire con eguale efficacia da un avvocato o da un docente di materie giuridiche.

Se la legislatura che si apre intende veramente dare corso a riforme tanto condivise quanto ineludibili, non può non riequilibrare i poteri dello Stato in un dicastero così importante. Tutto sommato, si tratta di far tornare un centinaio di giudici a fare il loro mestiere, e di mettere Governo e Parlamento nelle condizioni di rispondere al mandato degli elettori e di dare corso a priorità individuate come tali da almeno 25 anni.

Un contributo del Centro Studi Rosario Livatino per Interris.it