Argentina 78: la gloria e la macchia

La scomparsa del ct della prima Albiceleste campione del mondo, Cesar Luis Menotti, ha riportato a galla il ricordo di un Mondiale funestato dalla dittatura

Argentina
Foto © imago/Sven Simon

Calcio e società non vanno a braccetto in Sud America. Fanno parte l’uno dell’altra, quasi fusi in un’unica forma che, a guardarla bene, dice molto dei popoli latinoamericani e del loro modo di intendere il pallone. Un pendolo che oscilla, a volte pericolosamente, tra passione pura e indispensabile ascensore sociale, tra tifo caldo e rabbia rovente, tra tradizione e spirito libero, bisognoso di applicare a uno degli strumenti di elevazione quel lato funambolico del pallone, quasi danzante, tutto sudamericano.

Un legame viscerale capace, per dire, di trascinare il Brasile del 1950 sull’orlo di un abisso emotivo e, allo stesso modo, di proiettare l’Argentina del ’78 nell’estasi collettiva del Mundial casalingo. Un’estasi di facciata però, che la scomparsa del ct, Cesar Luis Menotti, ha riportato a galla nella sua gloria e nella sua torbidezza. Con le maglie albiceleste a sollevare la Coppa del Mondo nell’apoteosi sportiva, mentre la Reorganización Nacional della giunta militare al potere spazzava via democrazia e libertà.

L’Argentina di Menotti

Dell’Argentina Menotti era il direttore d’orchestra. La mente pensante capace di arginare, secondo dopo i tedeschi del ’74, la sinfonia semi-perfetta dell’Olanda ormai orfana di Cruijff. Eppure la sua Albiceleste era tutto tranne che la perfezione. Perché al Mondiale camminavano i giganti, da scegliere tra la Francia di Platini, l’Italia ventura campione, i vicini brasiliani e gli stessi olandesi. Ma anche per quel pizzico di mestiere che il ct mise nell’impasto della squadra, con Kempes e Passarella a guidare una squadra che, all’epoca, si prese il lusso di fare a meno del rampante Maradona, fresco capocannoniere della Primera.

L’ombra del potere nero

Su quel successo non ci furono né mani né serpentine leggendarie. Semmai un’ombra asfissiante, a stento nascosta da quei riflettori che, all’epoca, vollero a tutti costi scindere il palcoscenico dei Mondiali dal paesaggio circostante, dipinto dai golpisti del generale Videla, che ribaltarono Isabelita Peron e imposero all’Argentina quel riassetto sociale che, nonostante la vetrina mondiale, fu portato avanti in tutta la sua invisibile efferatezza. Nei bassifondi delle camere della tortura o sui voli della morte, dai quali i prigionieri politici, gli oppositori e i portabandiera della libertà finivano direttamente in mare. Desaparecidos, loro come gli altri finiti in arresto e mai più ricomparsi (trentamila alla fine), che del trionfo sportivo del loro Paese ne hanno, forse, solo sentito il rumore della festa. Macchiata, quasi irreale, come se quel sorso di successo fosse l’unico bicchiere da cui assaggiare la normalità.

Il dissenso silenzioso

La vittoria dell’Argentina, ottenuta sul campo e con il merito di chi batte gli ultimi sprazzi della grande Olanda, è stata fagocitata, come l’organizzazione stessa del Mondiale, dalla macchina propagandistica della dittatura. Con la giunta che si assunse l’onere di verificare da sé l’allestimento dell’evento, con il chiaro intento di dipingere il volto di un’Argentina efficiente nella gestione del mainstream dell’epoca. E, naturalmente, di mostrarlo al mondo più che agli argentini. Con una giunta tanto a digiuno di fútbol da non accorgersi che i pali delle porte negli stadi, cerchiati di nero, era tutt’altro che una tradizione del calcio argentino. Una protesta piuttosto, anzi, un ricordo. L’unico del Mondiale, tacitamente dedicato ai desaparecidos e alle loro famiglie da alcuni tra i responsabili dell’organizzazione degli stadi. Un omaggio che sarebbe stato chiaro solo tempo dopo agli occhi del mondo.