Un anno di Trump

Atteggiamenti sopra le righe, stile poco ortodosso, gaffe, tweet, qualche eccesso di troppo ma anche carisma e, in un certo senso, determinazione: a un anno dal suo giuramento, Donald Trump ha certamente dato prova di essere un presidente poco convenzionale, totalmente differente non solo da Barack Obama ma da buona parte dei suoi predecessori alla Casa Bianca. Del resto da lui, il Tycoon, era forse lecito non attendersi nulla di diverso, al di là della compostezza richiesta dal ruolo che, ormai da 12 mesi, esercita. A ogni modo, al di là dell'eccentricità del personaggio e di tutti quegli scenari che vanno a comporre il contorno della sua azione amministrativa, i primi 365 giorni di Trump nello Studio ovale sono stati certamente caratterizzati da vicende più o meno significative, in politica interna e, soprattutto, estera.

Politica interna

Dal punto di vista strettamente “americano”, la supremazia (al momento in calo) del Grand old party portata dall'elezione del Tycoon ha significato una sola grande riforma interna: quella sulla flat tax, promessa in campagna elettorale, ottenuta con le maggioranze di Camera e Senato e salutata dal presidente come una “vittoria storica”, il mantenimento di un impegno preso durante le presidenziali a favore della classe meno abbiente degli Stati Uniti. Al netto degli effetti economici che la riforma fiscale sortirà sulla vita dei cittadini americani, non sono stati pochi i dubbi che hanno accompagnato l'approvazione della legge, il cosiddetto “regalo di Natale” fatto dal presidente ai suoi elettori: primo fra tutti il sentore che, con l'aliquota dal 35% al 21%, a beneficiare della riforma saranno soprattutto le aziende, con gli sgravi per la classe media bassi e per quella povera praticamente nulli. Ma la “vittoria” ottenuta con la flat tax è stata in buona parte smorzata dall'arrancamento sul taglio dell'Obamacare, altro mantra elettorale sul quale Trump ha concentrato buona parte dei propri sforzi una volta insediatosi alla Casa Bianca: intoppo non da poco, la mini-crisi interna con alcune sezioni del partito Repubblicano, avverse al presidente. Del resto, la politica interna del Tycoon è stata in buona sostanza rispecchiata dai sondaggi che, dopo un solo anno, vedono il presidente protagonista di un calo di consensi piuttosto ampio, forse il più ampio a questo punto del suo mandato. Non va dimenticato che, nel corso del suo anno da numero uno, a pesare parecchio è stata la vicenda Russiagate, con la parziale disgregazione del suo gabinetto (da Michael Flynn a Steve Bannon, passando per il coinvolgimento nell'inchiesta di suo genero, Jared Kushner, e di suo figlio, Donald jr) e le difficoltà incontrate a seguito del licenziamento a sorpresa di James Comey, capo dell'Fbi e guida dell'inchiesta, deciso col supporto dell'Attorney Jeff Sessions e del suo vice, Rod Rosenstein.

I nodi esteri

Decisamente più pirotecnica l'azione in politica estera: a tenere banco, senza dubbio, la crisi coreana e tutti gli effetti derivati dal botta e risposta a distanza con Kim Jong-un. Una questione spinosa, in grado di tenere il mondo con il fiato sospeso e gli occhi puntati su Pyongyang (arrivata a dichiararsi potenza nucleare), che il Tycoon ha trattato rispondendo a tono alle provocazioni del leader nordcoreano: una scelta non sempre vista positivamente, nemmeno dal suo entourage. Qualche mese fa aveva parlato di “fuoco e fiamme” sul rivale, in caso avesse proseguito nei suoi propositi di nuclearizzazione del Paese, concetto sostanzialmente ribadito anche nel suo primo discoso all'Assemblea delle Nazioni unite. Lasciato in stand-by il progetto del muro messicano, decisamente più concreta è stata l'azione sull'obiettivo del ritiro delle truppe americane dall'Afghanistan, guerra avversata in fase di campagna elettorale ma, alla fine, proseguita con l'invio di altri uomini e con accuse al vicino Pakistan di favorire il terrorismo e rendere più difficile il compito dell'Us Army nello Stato confinante. Questione delicata come, del resto, continua a essere quella in Medio Oriente, alimentata dalla decisione del Tycoon di firmare il riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello stato d'Israele: una scelta che, pur di fatto non condivisa dall'Onu nonostante le pressioni dell'ambasciatrice Haley, si propone come scopo finale il trasferimento dell'ambasciata americana da Tel Aviv. Una mossa decisamente d'effetto che non ha mancato di provocare alterazioni dell'equilibrio in quell'area geografica. In mezzo, un incontro primaverile con Papa Francesco, a Roma, al quale il presidente si è recato assieme alla sua famiglia e su cui ha mantenuto il riserbo in merito ai contenuti. Di sicuro c'è solo una cosa: le parole del Santo Padre, il Tycoon ha detto che non le dimenticherà mai.