Proteste e coronavirus: il fantasma del caos a Hong Kong

Dai raduni di Victoria Park di fine 2019 alle strade semideserte di oggi, con la strisciante paura del coronavirus che rende difficile immaginare alle folle in piazza di quei giorni. Hong Kong, come del resto le altre grandi città cinesi, fa i conti con un'epidemia che, in qualche modo, sembra aver convinto i cittadini a mettere momentaneamente da parte le istanze contro Pechino per fronteggiare l'emergenza. Eppure, appare difficile che mesi di protesta così intensa siano stati sopiti in un colpo solo: a Hong Kong il malcontento circola ancora, pronto a esplodere di nuovo una volta passata l'ondata dell'allerta sanitaria. Che, in qualche modo, potrebbe costituire un ulteriore elemento di destabilizzazione fra il Porto profumato e l'autorità centrale cinese. Interris.it ne ha parlato con Guido Alberto Casanova, research trainee Asia dell'Istituto per gli studi di Politica internazionale (Ispi).

 

Dott. Casanova, la protesta di Hong Kong ha riempito per mesi le pagine  dei quotidiani internazionali. Ora come ora, della città si parla in merito alla diffusione del coronavirus: siamo di fronte solo a una nuova priorità cittadina o anche a una naturale flessione del dissenso popolare?
“Si tratta di una protesta portata avanti per almeno 7 mesi e con numeri decisamente importanti, addirittura milioni di persone scese in piazza contro l'extradition bill e altre ragioni di malcontento ed è difficile che basti l'epidemia, per quanto grave, per annacquarla. Ovviamente i numeri sono scesi e la recente situazione ha portato a episodi di panico collettivo, con assalti ad alcune attività per reperire beni di prima necessità. Numeri scemati ma, a più bassa intensità, è comunque proseguita l'ostilità contro le infiltrazioni di Pechino all'interno della Regione autonoma. Notizia di qualche giorno fa, in una stazione di metro erano state rinvenute bottiglie molotov, a indicare come esista ancora un forte risentimento fra la popolazione. Ma è anche vero che la protesta sembra aver preso nuove strade…”.

Ad esempio?
“Due settimane fa una buona parte del personale medico di Hong Kong ha deciso di scioperare per ottenere la chiusura delle frontiere con la Cina. Una scelta, quella dei medici, dettata dalla minaccia che il coronavirus rappresentava per la città e per il rischio che si sarebbe corso tenendo aperti i confini. Hong Kong ha un confine terrestre naturalmente e sembra che un quinto della sua popolazione sia di provenienza cinese. Oltre ai contatti con i parenti in Cina, ci sono stati eventi come il capodanno lunare e altre forti connessioni fra la città e il resto del Paese, anche su un piano abitativo: vivere in Cina costa molto meno che abitare a Hong Kong, per cui c'è una parte della popolazione che si è spostata al di là del confine, a Shenzhen, risiedendo quindi in Cina ma lavorando nella città autonoma. La chiusura del confine terrestre (così come quella di porti e aeroporti) veniva dal personale medico e rappresenta, a mio parere, un nuovo campo sul quale si è spostata l'opposizione hongkonghese”.

L'epidemia di coronavirus è arrivata al culmine della protesta hongkonghese, in un momento di massima tensione fra città e autorità, locale e centrale. In questo senso, il virus può rappresentare un elemento di destabilizzazione ulteriore, magari anche prestando fede a teorie non fondate sulla sua diffusione?
“E' difficile tracciare un quadro rispetto a questo. Nel 2003, con l'epidemia di Sars, Hong Kong era stata toccata in modo importante. Per cui, il fatto che 17 anni dopo si ripresenti un'epidemia così importante e in un momento in cui la tensione è così alta, non mi stupirebbe se fossero circolate queste teorie, magari anche completamente infondate. Dato lo stato della città, è possibile che gli hongkonghesi siano stati più inclini a determinate narrazioni sul virus”.

Il rischio di contagio ha comunque grandemente limitato gli assembramenti e i grandi raduni…
“Sicuramente. Gli assembramenti sono diminuiti ma il sentimento della protesta non è svanito. I motivi per cui i cittadini andavano in piazza sono ancora lì e, quando l'epidemia sarà passata, le piazze di Hong Kong torneranno a riempirsi con tempi e modi che la protesta richiederà. E' da escludere che tutte le motivazioni che avevano animato il dissenso degli scorsi mesi siano stati risolti”.

Sul piano sanitario, la popolazione si è attenuta alle disposizione del governo centrale o ci sono stati episodi di discontinuità?
“Una parte della popolazione sembra sia rimasta scontenta dal posizionamento dei centri di quarantena molto vicino alle aree residenziali. E alcuni analisti avevano avuto l'impressione che le autorità di Hong Kong si stessero attrezzando più per curare che per prevenire il male. Anche per via dello sciopero dei medici, alcuni tratti del confine con la Cina sono stati chiusi ma non tutti: per cui, nonostante il governo di Hong Kong abbia il diritto di poter chiudere gli accessi, non sembra essere propenso a farlo del tutto. Alcuni punti rimangono così aperti e questo crea i presupposti per una maggiore diffusione del contagio. Sono stati perciò creati questi centri di quarantena per focalizzarsi sul trattamento dei casi”.

Come porto di rilevanza internazionale, va da sé che l'epidemia di coronavirus possa potenzialmente assestare un duro colpo all'economia cittadina. C'è il rischio che il periodo di possibile recessione fomenti un ulteriore malcontento, influendo sulla ripresa della protesta?
“Credo proprio di sì. E' inevitabile che una città paralizzata prima dalla protesta, poi da un'epidemia, abbia risentito pesantemente della situazione da un punto di vista economico. Qualche giorno fa c'era stato uno sciopero di alcuni esercizi commerciali che chiedevano ai propri affittuari di abbassare i canoni di affitto… Sicuramente le attività economiche hanno subito gravi perdite e questo andrà a dare una spinta ai motivi che avevano animato il dissenso popolare, innanzitutto i tentativi di Pechino di ingabbiare la democrazia hongkonghese e la disparità sociale presente in città”.