Il Libano resiste al terrorismo sunnita, ma nel Paese la situazione è fragile

Il Libano in lotta contro il terrorismo: il 2014 che ormai si sta chiudendo, è stato per il Paese dei cedri uno degli anni più difficili da questo punto di vista. Più della mancanza di un presidente della Repubblica dallo scorso maggio, la guerra difensiva condotta dall’esercito contro il fondamentalismo terrorista sunnita è stato il tema dominante della politica libanese.

Dalle periferie a maggioranza sciita, su cui si concentravano i primi attentati, il fenomeno si allargato a Beirut e Tripoli, fino a toccare i confini orientali. Il Libano è un Paese strategia per il terrorismo sunnita: riuscendo a prendere piede nelle zone di passaggio, gli attivisti avrebbero un diretto contatto con la jihad in Siria e Iraq.

I detenuti islamisti della prigione centrale di Roumié, arrestati all’indomani della caduta del campo di Nahr el-Bared della disfatta dell’organizzazione Fateh el-Islam, nel 2008, fanno parte degli attori invisibili di questo terrorismo diretto contro i fondamenti istituzionali e culturali del Libano.

Beneficiando di un appoggio totale del Courant du Futur, partito moderato maggioritario all’interno della comunità sunnita, l’esercito è riuscito a cacciare da Tripoli, non senza pesanti perdite, i gruppi che si erano istallati dando scacco ai piani islamisti. Ma a Tripoli e in alcune regione del nord, i militari continuano ad essere logorati da attentati che mirano non solo al trasporto di truppe, ma anche ai civili.

Si ricorda che dei processi furono avviati, dopo la caduta di Nahr el-Bared contro 420 persone, la metà delle quali erano contumaci. I dossier furono affrontati dal Tribunale militare, prima di essere consegnati alla Corte di giustizia. Si aggiungevano ad altri due dossier di attentati terroristici nei quali era già implicato il gruppo Fateh el-Islam (Bohssass, Aïn Alak).

Incarcerati nel 2008, tutti i detenuti compresi nel dossier Nahr el-Bared hanno scontato alcuni anni in prigione senza processo. Oggi, solo 35 dei 93 islamisti sempre incarcerati a Roumié non sono stati giudicati. Ma, dopo la battaglia di Ersal del 2 agosto 2014, alle frontiere orientali del Libano, le cose sono cambiate: adesso sono gli isamisti che si rifiutano di comparire davanti alla Corte. Su pressione della magistratura, la direzione della prigione, che dipende dal Ministero dell’interno, ha ammesso che non le è possibile portare con a forza gli imputati davanti al tribunale, “senza spargimento di sangue”.

Nel frattempo, in sei anni, i detenuti islamisti si sono organizzati, al punto da trasformare l’ala B di Roumié in uno spazio autonomo nel quale le guardie non osano avventurarsi per il timore di essere aggredite o prese in ostaggio e nel quale vige la loro legge. Gli islamisti hanno organizzato la loro vita collettiva secondo la gerarchia che è loro propria, dispongono di telefonini e di altri oggetti di conforto e impongono anche la loro giustizia.