Giovane e brillante attore, ironico e dissacrante ma anche dotato di quell'abilità oratoria in grado di divertire e far riflettere: Matthias Martelli, classe '86, rappresenta il prototipo dell'interprete che fonde la formazione culturale (diploma Classico, laurea in Storia e diploma alla Performing Arts University di Torino) all'espressività tipica del giullare, sulla scia di grandissimi maestri del recente passato, da Philip Radice a Michael Margiotta, fino a Dario Fo. Niente di strano che nell'arco di una carriera-lampo, al fianco di titoli originali e sorprendentemente attuali nei loro contenuti (dal teatro popolare de Il mercante di monologhi fino alla tecnologia 2.0 de Nel nome del Dio Web), si arrivi alla sfida delle sfide con la messa in scena, con consenso unanime di critica e di pubblico, del Mistero Buffo di Fo. Una prova del nove, affrontata però con la consapevolezza, tipica dell'attore, di un teatro “che si può fare solo dal vivo”, rispettando i criteri inossidabili dell'originale ma inserendo quel tocco di discreto sé stesso che rende unica ogni rappresentazione.
Matthias, il nome Mistero Buffo fa rima con capolavoro. L'idea di riportarlo in scena non implica solo un grande lavoro artistico ma anche di preparazione fisica e culturale per il confronto con un pubblico diverso da quello dei primi anni Settanta. Come vi siete approcciati a questa sfida?
“Abbiamo trattato Mistero Buffo come un classico universale del teatro, rispettando il testo e lo spirito originario ma seguendo un’interpretazione che fosse il più possibile personale, diversa da quella di Dario, e seguendo le regole fondamentali, grazie anche al regista e co-ideatore del progetto, della commedia dell’arte, del teatro di Lecoq, in modo da calarci dentro con una tecnica e uno stile per poter rendere questo capolavoro diverso ma rispettoso dell’originale”.
Anche se un'opera che trasuda modernità, Mistero Buffo pone l'attore che lo interpreta su un piano di responsabilità rispetto all'autorevolezza dell'ideatore dell'opera, addirittura un Premio Nobel. È un confronto duro?
“È una sfida impegnativa ma ti dico la verità, non ho mai avuto paura di questo confronto e per un motivo molto semplice: Dario Fo è un genio inimitabile ma il teatro si può fare solo dal vivo, non si può guardare in videocassetta. Quindi, una volta che non c’è più l’interprete originario, per rifare un’opera, un classico universale, bisogna per forza di cose mettersi in gioco. Forse qualcuno farà confronti ma dentro di me non ce ne sono, non è una gara, anche perché sarebbe persa in partenza con un genio di quel calibro. È una reinterpretazione personale di un capolavoro. Io non mi sento in gara assolutamente, ci metto dentro moltissima gioia, passione, gioco e divertimento, il che mi fa allontanare da quella pesantezza del confronto, che comunque è una cosa che non faccio per fortuna”.
Tornando all'originalità dell'opera, al di là del tono satirico ed esilarante che la attraversa parliamo di un lavoro di elevatissimo livello culturale… È un binomio che fa presa sul pubblico di oggi?
“Secondo me ha una presa molto forte, l’abbiamo già sperimentato con le repliche passate. E questo perché ci sono temi assolutamente attuali, addirittura il tema dei migranti nella giullarata del primo miracolo di Gesù bambino, dove egli è appunto un migrante che si trova in una città straniera con la sua famiglia e ne viene scacciato proprio per questo. E decide di fare un miracolo per conquistare l’amicizia degli altri bambini. È di un’attualità disarmante. Da un punto di vista culturale ha un altissimo valore ma la cosa straordinaria è che l’intera opera non è caratterizzata da una pesantezza ma è accompagnata dalla satira, dalla comicità, dalla risata, dal gioco. C’è una bellissima frase di Molière: ‘Con la risata ti si spalanca la bocca e con lei anche il cervello, e nel cervello entrano i chiodi della ragione’. A testimoniare come con la risata il contenuto culturale arriva in maniera maggiore e il pubblico lo percepisce in pieno. Alcuni giorni fa abbiamo fatto una prova aperta con gli studenti al Palazzo Nuovo di Torino, ragazzi di 19-20 anni che hanno riso, capendo il peso satirico e questa è veramente la missione di questo lavoro…”.
Creare quell'equilibrio tra intrattenimento, sentimento e cultura, che è poi il ruolo del teatro…
“Sì, esattamente. E non c’è contraddizione, lo dimostra proprio il teatro di Dario Fo: uno può ridere e attraverso la risata portare dei contenuti”.
Restando su temi e contenuti, c'è il tuo Nel nome del Dio Web, una rappresentazione di sorprendente attualità, in cui la tecnologia assume gli estremi connotati di un vero e proprio credo. Uno spettacolo destinato soprattutto ai giovani e al loro mondo. Questo nell'ottica di un teatro che può contribuire a formare i ragazzi, in chiave ironica, sui lati più complessi della loro contemporaneità?
“Dalla mia esperienza ho capito che i ragazzi sono molto interessati al teatro, perché parla anche di loro. Nello spettacolo Nel nome del Dio Web, il suo uso spasmodico è paragonato a una religione, perché non lo mettiamo più in discussione, ci crediamo come se fosse un Dio, assorbendo le questioni negative come la dipendenza senza neanche rendercene conto. Se portiamo questi argomenti ai giovani, e intendo anche giovanissimi, con uno stile che non sia pesante o di accusa ma di critica e autocritica comico-satirica, loro sono assolutamente coinvolti da questo tipo di arte. Quando ho fatto le mattine per le scuole con questo spettacolo, si facevano dibattiti di una-due ore, non andavano più via. I ragazzi hanno bisogno di riflettere su questi temi, loro sono nati in un mondo dove c’è già tutto e non sanno se ci vogliono vivere. Questo è interessante”.
Mistero Buffo, opera di alto livello culturale ma non priva di una certa componente religiosa. Hai affrontato questa sfida da credente?
“Io mi dichiaro agnostico e ho un’ammirazione nei confronti di Mistero Buffo perché secondo me è un’opera profondamente spirituale: restituisce la figura di Gesù bambino, di Maria in maniera molto umana, con delle caratteristiche vicine al popolo, ai poveri, agli umili. E secondo me incarna dei valori evangelici, come appunto la vittoria dei deboli sulla prepotenza degli oppressori. In tutte le giullarate, alla fine il giullare ribalta la situazione e cerca di dare all’oppresso, vittima di ingiustizia, una giusta rivincita. La motivazione del Nobel a Dario Fo diceva proprio questo: ‘Nella tradizione dei giullari medievali dileggia il potere per restituire dignità agli oppressi’. E questo, secondo me, conserva un valore spirituale e anche religioso”.