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Gli idoli nazisti e il delirio demoniaco delle SS

Il 1° settembre 1939 il III Reich invade la Polonia. Si scatena il vortice della II guerra mondiale, uragano veemente che imperversa distruggendo tutto ciò che incontrae. Un percorso inarrestabile che attraversa il vecchio mondo, disegnando a suo piacimento rettilinei e virate, incontenibile manifestazione di forza e di violenza cui nulla si sottrae.  San Giovanni Paolo II, nel libro “Memoria e Identità”, che si può considerare il suo testamento spirituale, pubblicato qualche mese prima della sua morte, ripercorrendo l’esperienza diretta di quegli anni, descrive il nazismo come un “vortice”, un’”eruzione di male”, una “follia”, una “bestialità”, “un furore bestiale”, utilizzando significativamente il verbo “imperversare”, lo stesso che s’impiega per parlare di epidemie come quelle della peste. Malgrado tutto in uno sguardo di fede poteva osservare che “c’è un limite imposto al male dalla divina provvidenza”, sperimentando nella sua stessa esperienza biografico-spirituale che ad un abisso di male si risponde attraverso un abisso d’amore e con l’Apostolo si può gridare: “Non lasciarti vincere dal male ma vinci il male con il bene”.

Il carattere demoniaco delle SS e del III Reich

Il giudizio della storia ha già sentenziato inequivocabilmente che il Nazismo, l’antisemitismo e le leggi razziali sono stati un male ma è necessario mettere ancor più in evidenza il carattere demoniaco che li ha accompagnati e sostenuti. Quando un’ideologia arriva a professare una propria religione e a indicare il proprio dio, si sprigiona tutta la forza di quegli idoli che la letteratura biblica sapienziale non esita a condannare fermamente. Qualcosa del genere è accaduto nel depositarsi di un carisma negativo nell’uomo Adolf Hitler e nei suoi adepti, che non esitavano a osannarlo come “servo di Dio”, come “colui che non si è mai ingannato e ha sempre avuto ragione”, al quale è necessario rimanere fedeli fino alla morte. Strana parabola quella che incontrandosi con la libertà dell’uomo può approdare verso una manifestazione così veemente del male. Eppure Hitler, nato nel giorno di Pasqua il 20 aprile 1889, quasi una benedizione o un tentativo di esorcismo ante litteram, dichiarò in gioventù di nutrire una certa ammirazione per la Chiesa. Come ogni giovane ha avuto i suoi sogni, tra cui quello di un futuro nel mondo dell’arte, ma l’adesione a delle dottrine fuorvianti ne avvelenarono irrimediabilmente il cuore. Il corruttore accetta di essere venerato, divenendo di fatto seduttore, come denunciò Bonhoeffer. Ma c’è ancora dell’altro. Fra i reparti che nell’iniziale guerra lampo si erano distinti per particolare furore c’erano quelli delle Leibstandarte (divisioni) delle SS, da quelle denominate “Waffen” o “Wiking” o anche più semplicemente “Adolf Hitler”. Non amati dall’esercito della Wehrmacht, per la loro impreparazione militare e strategica, si costruirono un consenso solo a motivo dell’efferatezza  in battaglia, perché lottavano fino all’ultimo respiro e per il fanatismo senza fine del loro pensare e agire. Il loro motto era: “Dare la morte e ricevere la morte”, la loro Bibbia il “Mein Kampf” (imparato a memoria), e poi quel grido che sovente si ascoltava nelle trincee: “Dobbiamo riconquistare a Hitler questa città!”. Insomma, giovani educati volontariamente al male, preda del loro idolo.  

Alcune testimonianze

Gereon Goldamann, dapprima SS Waffen, poi degradato ai reparti sanitari per aver rifiutato di abiurare la fede cristiana, negli anni successivi divenuto frate e sacerdote, in un’intervista andata in onda su un documentario di Rai Storia ha rivelato di aver udito personalmente l’ordine perentorio inviato in modo riservato ai reparti d’elite delle SS: “Un giorno venne un pezzo grosso da Berlino, avevano l’ordine di non dire a nessuno quello che avevamo sentito, era una questione di servizio assolutamente segreta. Ci disse che avremmo ottenuto la vittoria solo dopo che ogni chiesa sarebbe stata abbattuta. Bisognava fare piazza pulita non solo degli ebrei ma anche dei cristiani. Disse che Cristo era il figlio illegittimo di una servetta ebrea“. Gli fa eco Fritz Schliepack, ex ufficiale della Wehermacht, che ha dichiarato: “Incrociavamo le unità corazzate e i reggimenti motorizzati che lasciavano segni inequivocabili … nella Francia cattolica avevano distrutto tutti i crocifissi, una forma di paganesimo dichiarato e militante, ma noi non lo avevamo capito. Viene dichiarata guerra a chi professa una fede diversa”.

La lettura di Dossetti

Scatenamento del male, osservato e analizzato lucidamente e profeticamente da don Giuseppe Dossetti. Il monaco che aveva scelto di ritirarsi a Montesole, luogo di una delle stragi più cruente compiute dai nazisti, nel suo scritto profetico “Non restare in silenzio, mio Dio”, riporta invece la testimonianza processuale di un’infermiera ex crocerossina: “Quando avevo sedici anni andai a Berlino come infermiera della Croce Rossa. Là abbiamo dovuto giurare che consideravamo Hitler come il nostro Dio, ed abbiamo dovuto firmare che non saremmo più andati in chiesa. La Chiesa e tutto il resto era soltanto un’impostura. Gli Ebrei dovevano essere tutti sterminati. Questo era l’inizio della nostra formazione. Ero troppo giovane per capire le conseguenze di tutto questo” (p. 25).

Per comprendere cosa è avvenuto Dossetti suggerisce di rileggere tutta la dottrina sugli idoli, così com’emerge nella Scrittura, fermandosi in particolar modo sul capitolo 14 del libro della Sapienza, dove si dice che “l’adorazione di idoli senza nome è principio, causa e fine di ogni male” (14,27) e si fa riferimento anche alle forme dei riti iniziatici, banchetti orgiastici, misteri segreti che generano “sangue e omicidio, furto e inganno”. Il monaco emiliano vede nella pagina paolina sugli dei e signori del cielo e della terra gli “elementa mundi”, gli “uomini divinizzati”, osservando che chi “si sottomette volontariamente a questi esseri, si sottomette alle potenze negative che lo portano non più ad agire da uomo, ma ad essere agito dalle stesse potenze”. Passaggio che spiega il delirio delle SS hitleriane, formate secondo “un rituale solenne e meticoloso da cerimonia demoniaca”, come annota anche Poliakov, citato da Dossetti, fattore che “trasforma i delitti nazisti in delitti castali”. Le loro opere e stragi cioè dovevano essere intese come un dovere-missione di servizio al proprio dio. Essi erano sacrificatori che immolavano vittime per il loro signore. Triste e drammatica realtà, quella del “rituale” e del “sacrifico” che secondo Dossetti emerge in tutte le stragi del settembre-ottobre del 1944, nel tempo in cui, essendo in bilico la vittoria della guerra, l’elite ritenne di dover incrementare le vittime per il proprio dio. Nella strage di Cerpiano, protratta per due giorni, dal 29 al 30 settembre del 1944, osserva ancora Dossetti, “le SS bivaccano e gozzovigliano, ritmando l’orgia al suono dell’armonium”, infierendo su donne e bambini. Mi pare di poter leggere questo accanimento come un attacco alle fonti e alle sorgenti della vita, alle generazioni future. Tipica materia di pertinenza del demonio, che in quel dei campi, ha lasciato risuonare questa volontà diabolica, nel senso del dividere e separare, attraverso le parole crude e senz’anima delle guardie ai deportati ebrei: “Uomini di qua, donne di là”. Famiglie separate e distrutte. E poi quest’impulso trascinante si è lanciato sui folli esperimenti di medici come Mengele ed altri, nel tentativo di carpire il segreto della vita.

I presupposti ideologici di tale delirio, secondo Dossetti, sulla scorta di diversi ermeneuti del tempo, andavano ricercati nella dottrina dello “Spirito Obiettivo” della collettività, affermatasi nella stessa concezione del diritto e dello Stato. Si ritiene cioè che “l’individuo non ha come tale né il diritto né il dovere di esistere, poiché ogni diritto e ogni dovere promanano dalla Gemeinschaft”, dalla collettività. Tendenza che il teologo Romano Guardini, lavorando proprio con i giovani, già a partire dagli anni Venti, cercava di correggere offrendo una visione di gemainschaft come “comunità”, educando cioè a una “comunanza umana” che si costruisce come dono a partire dal vissuto quotidiano, da una comunanza nel lavoro, nella lealtà, nella disciplina. Niente di tutto questo per gli adepti del Fuhrer e per i circoli ristretti del Fuhrung, abitati, secondo dottrina, dalla pienezza dello “Spirito Obiettivo”, quello che decide le sorti di tutti gli altri presso i quali esso è assente o presente in modo del tutto marginale.

Fare teologia dopo Auschwitz

L’analisi di Dossetti si spinge anche nel campo della riflessione teologica, rilevando che la questione sul potere del demonio e degli idoli, che è stato vinto con la resurrezione di Gesù, fa sorgere il grido tra preghiera e disperazione: “Dov’era Dio?”. Scrive Dossetti: “E per quanto invocato e supplicato – soprattutto da tanti innocenti, e con le parole più santi e efficaci, perché da Lui stesso ispirate, e già tantissime volte esaudite nei Padri – perché rimaneva muto, come muti dovrebbero essere invece solo gli idoli?”. Perché dunque il Silenzio di Dio? Il monaco di Monte Sole prova a rispondere sviluppando un pensiero del pensatore ebraico André Neher, autore del volume “L’esilio della Parola. Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz”, sostenendo che, anche nello studio della Scrittura, occorre lasciarsi educare a “una lettura non tanto della parola ma piuttosto del silenzio”, perché Dio ha parlato e parla anche attraverso il silenzio. Dossetti preferisce rispondere con un’affermazione tratta dal testo “La Notte” di Elie Wiesel, nel quale trova “più teologia” di quanto non ce ne sia in certi teologi accademici: “Eccolo: è appeso lì, a quella forca”. Dio, cioè si è eclissato nell’uomo.  Passaggio che il teologo sistematico Massimo Naro ha ripreso nel volume “Ero forestiero e mi avete ospitato. Umanesimo e migrazioni nel Mediterraneo”, e poi, “La Virtù del Nome. Invocare Dio per riconoscere l’umano”, curati per le Edizioni Rubbettino, per ricordare che l’uomo che si “porta dentro l’altro e l’altro dentro” scopre che anche Dio si “nasconde” in lui. Verità che si lascia scoprire solo nel silenzio e dal silenzio, come quello rispettoso e orante scelto da papa Francesco nella sua visita ad Auschwitz-Birkenau, che per Naro “è come quello di Dio, anzi è condiviso con Dio e che, più radicalmente, coincide con Dio”. Nel silenzio infatti si comprende che “solo Dio può  gridare il Nome di Dio e lo fa nel profondo dell’animo umano”.

Così, continua Naro, in teologia “la nominazione di Dio subisce un dislocamento (…) dallo spazio della dimostrazione a quello dell’invocazione, poiché “l’Ineffabile si esprime nell’interlocuzione”. E anche il teologo biblico don Giuseppe Bellia può annotare che la valenza del Nome di Dio “si può misurare su un piano antropologico, sul quel pensare e dire umano di Dio in cui l’uomo, pur con tutte le sue avvilenti e infanganti proiezioni, necessariamente rispecchia qualcosa di sé che supera e orienta il senso del suo vivere”.

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