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Trent’anni fa l’omicidio di don Diana: l’eredità che ci ha lasciato

Il 19 marzo 1994, giorno del suo onomastico, alle 7.20 di mattina, don Giuseppe Diana viene assassinato nella sacrestia della chiesa di San Nicola di Bari, a Casal di Principe. Un omicidio di stampo camorristico che, a causa della sua brutalità sconvolge l’Italia e tutta l’Europa.

Don Peppe Diana

Don Giuseppe Diana, chiamato anche Peppe Diana, è stato ordinato sacerdote nel marzo del 1982. Dal 1989 è parroco nella chiesa San Nicolad i Bari a Casal di Principe, suo paese nativo. Si batte contro la criminalità organizzata della sua città, cerca di aiutare le persone nei momenti resi difficili dalla camorra, negli anni del dominio del Clan dei Casalesi, legata principalmente al boss Francesco Schiavone, detto “Sandokan”.

Per amore del mio popolo

Il 25 dicembre 1991, giorno di Natale, don Diana fa circolare una lettera in tutte le chiese della sua diocesi intitolata “Per amore del mio popolo“. Uno scritto con il quale ribadisce il suo impegno nel voler contrastare la camorra che, nella lettera, viene definta dal sacerdote “una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana“.

L’intervista

A trent’anni dal brutale assassinio di don Diana, Interris.it ha intervistato il professore Vincenzo Musacchio, criminologo forense, giurista, associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (RIACS) di Newark (USA). È ricercatore indipendente e membro dell’Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services Institute di Londra.

Professore, trent’anni fa veniva ucciso dalla mafia don Peppe Diana. Quale insegnamento, parlando di legalità, ci ha tramandato questo sacerdote?

“Mi dispiace soltanto di non essere riuscito a conoscerlo di persona, ho avuto però la fortuna di conoscere la mamma, la sorella e il fratello che mi hanno gratificato con il premio che concedono i familiari alle persone che divulgano la legalità e l’antimafia nelle scuole. Don Peppe ci ha insegnato che la coscienza e la consapevolezza di ciò che ci circonda pretendono impegno, studio e cultura. Lui sapeva molto bene che le mafie temono la cultura perché essa permette di capire che esiste il bene e il male e proprio la cultura e lo studio consentono di scegliere con piena coscienza. Per scegliere, occorre sapere, conoscere, confrontarsi. Ci ha fatto capire che le mafie, e la camorra in particolare, si infiltrano laddove riempiono un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche è caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi. È morto per aver voluto compiere fino in fondo la sua missione, contrastando con la logica dell’amore, della legalità e della ragione, la violenza di chi impone un modo di vita che imbarbarisce la società umana. Questo è l’insegnamento più significativo che ci ha lasciato”.

Perché la mafia lo considerava così pericoloso?

“Perché era riuscito ad entrare nei cuori della gente e in particolar modo dei più giovani che erano e sono ancora oggi la linfa vitale di cui si nutrono le mafie. ‘Dal seme che muore fiorisce una messe nuova di giustizia e di pace’. I mafiosi si erano accorti che tanti giovani sfruttati andavano al suo oratorio e non più a rubare o a spacciare. Questo per le mafie costituiva un pericolo poiché toglieva loro la cd. manovalanza e il loro apparente prestigio sociale”.

Come si sono evolute le mafie in questi trent’anni?

“Oggi le nuove mafie sono transnazionali, mercatistiche, tecnologiche, invisibili e soprattutto prediligono la corruzione alla violenza. Dall’infiltrazione siamo passati all’integrazione e dal radicamento siamo arrivati alla convivenza. La corruzione offre grandi occasioni di profitto in settori economici e finanziari molto redditizi. Consente di creare una rete di relazioni con la cosiddetta “area grigia” allo scopo di guadagnare legittimità, consenso e credibilità. È uno strumento con cui le mafie rafforzano il loro potere politico, economico e sociale. Sono divenute silenti, proprio perché corrompono. Queste sono le metamorfosi mafiose che devono preoccuparci”.

Come contrastare le mafie oggi?

“La lotta alla mafia, proprio come diceva Borsellino, non può essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolga tutti e specialmente le giovani generazioni. Questo purtroppo non è accaduto né dal punto di vista repressivo tantomeno da quello preventivo. La mafiosità invece di diminuire è aumentata relegando a un ruolo secondario il rispetto delle regole sociali. In una cultura di questo tipo lo sviluppo delle mafie ha trovato terreno fertile favorendo le collusioni con il potere politico, economico e finanziario. Le mafie contemporanee vanno lottate affrontando soprattutto le loro nuove peculiarità: a livello transnazionale, ridimensionando ai minimi termini il loro potere economico e finanziario, combattendo la corruzione e la loro invisibilità”.

Manuela Petrini

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