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ll tempo libero: l’opportunità dei ragazzi disabili – Video

Quando si pensa alla disabilità si tende ad escludere a priori le opportunità. Opportunità che l’associazione A.T.L.HA Onlus ha deciso di porre alla base del suo progetto di solidarietà. “Se non c’è accessibilità, non c’è inclusione” riporta ad Interris.it la Presidente Fabiola Beretta che di professione fa l’insegnante di sostegno e dedica la vita al volontariato. La sua associazione ha creato una molteplicità di attività col fine di far rientrare la condizione di disabilità in quella di una normalità di gruppo. È il gruppo la forza creativa che rendere accessibile anche “un castello, una lunga rampa di scale, una torre” e che porta decine di persone portatrici di handicap in viaggio nel mondo.

L’intervista

Come nasce l’associazione e a che persone si rivolge?
“L’associazione nasce nel 1986 con il preciso intento di offrire opportunità di tempo libero ai fini dell’integrazione delle persone con disabilità. I bisogni, nel corso degli anni, sono cambiati: oggi ci sono molte più possibilità. Trent’anni fa del tempo libero per le persone con handicap non si occupava davvero nessuno mentre per il nostro fondatore Lino Brundu era fondamentale organizzare il tempo libero per la crescita armonica di tutte le persone”.

Perché è così importante strutturare il tempo libero?
“Perché di tempo libero le persone con disabilità ne hanno troppo. Sono poche occupate. Quelle a cui è stato garantito il diritto allo studio o al lavoro hanno necessità di avere un tempo per staccare dalla routine al fine sviluppare quegli aspetti che riguardano le relazioni. Da sempre, noi per gestire il tempo libero non abbiamo mai voluto dei professionisti del settore perché l’aspetto della normalità della relazione è quello che cercavano le famiglie e i ragazzi. Per questo siamo volontari che nella vita svolgono le più disparate mansioni: architetti, ingegneri, insegnanti, idraulici. Persone che scelgono di condividere le attività con coloro che, ancora oggi, hanno meno opportunità di altri”.

Quali sono i risultati di queste relazioni di normalità?
“I risultati sono evidenti se penso a quello che abbiamo passato durante l’emergenza Covid-19. La mancanza di relazioni in un contesto di inclusione, anche se abbiamo attivato delle attività a distanza, ha influito su alcuni soggetti e sul loro modo di vivere. Abbiamo segnalato perciò ad enti specializzati che esistono persone che a causa del lockdown rischiano uno stato di malessere psicofisico. Ogni anno, come associazione svolgiamo dei viaggi. A causa del virus non possiamo e ci sembra a tutti così strano”.

Si riferisce al turismo accessibile?
“Il turismo è turismo. In realtà, non esiste un turismo differenziato per i disabili. La questione è renderlo accessibili, che significa permettere a tutti di fruirlo nella maniera personalizzata che si desidera. Come associazione viaggiamo da 35 anni. All’inizio, non c’era nemmeno l’idea di cosa potesse essere il diritto alla vacanza e il turismo accessibile. Ma il nostro gruppo, insieme, ha sempre risposto positivamente alle incombenze rappresentate dalle barriere architettoniche ma anche culturali. Il nostro viaggiare non costituisce solo la soddisfazione di un bisogno primario anche per le famiglie: il distacco dal nucleo familiare per un ragazzo disabile è fondamentale. Ma il viaggio costituisce un’esperienza concreta di inclusione. Non cerchiamo mai delle strutture completamente accessibili se sono posti dedicati solo ai disabili. Abbiamo fatto la scelta di andare tra le persone: utilizzare campeggi, alberghi, agriturismi. Se abbiamo delle difficoltà, lo segnaliamo in termini costruttivi. Bisogna diffondere una cultura inclusiva”.

L’accessibilità nelle città costituisce un problema profondo?
“Sì, perché ancora non è diffusa la cultura dell’accessibilità. Accessibilità non solo fisica ma anche digitale. È stata creata l’opportunità del Bonus Vacanze per tutte le persone. Ma l’app che permette di accedere al bonus non è accessibile alle persone non vedenti. Questa è una discriminazione. E la cosa che preoccupa è che il problema proviene dal ministero al cui interno è presente una sezione dedicata alla accessibilità digitale. Noi come enti abbiamo il compito di segnalare, ma dall’altra parte bisogna che nasca la cultura dell’accessibilità. E ricordiamoci che non c’è inclusione se non c’è accessibilità”.

Gianpaolo Plini

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