Sos della Chiesa per la violenza che sta sconvolgendo il Sud Sudan. “Nessuno sa quali siano i reali motivi degli scontri nella contea di Tombura e Ri-Yubu”, afferma monsignor Eduardo Hijboro Kussala. Il vescovo della diocesi del Sud Sudan lancia il suo “appello alla pace”. Nella contea, racconta il presule, “la situazione è gravissima. Da giorni si verificano disordini. Violenza. Morti. Feriti. Tanti bambini vagano per le strade. In cerca di cibo o riparo. Molta gente fugge impaurita. E sono tantissimi gli sfollati interni che stanno arrivando nelle parrocchie. Scuole. Ospedali della zona di Tombura. Da diverse parti del Sud Sudan.”
Fame, morte, sofferenza, distruzione. E’ sconvolgente lo scenario descritto dal vescovo Hijboro. “Scontri, conflitti, violenza non portano alla pace. Portano solo distruzione e morte. Ho vissuto anche io in condizioni di guerra e violenza. Non si sa quali siamo le motivazioni che portano a questa tragedia. Basta violenza! Esorto i nostri governanti e l’intera società civile ad intervenire. Per salvare la nostra comunità. Aiutateci a fermare la violenza a Tombura. Avete gli strumenti per far fronte a questa situazione. Imploro la popolazione della zona. Rimanete uniti. Sostenetevi l’un l’altro. E non alimentate spirito di vendetta”.
Attraverso l’agenzia missionaria vaticana Fides, il vescovo Hijboro rivolge il suo accorato appello anche ai social media. Affinché diffondano messaggi che portino alla pace. E non alimentino ulteriore violenza. “I mercati sono sprovvisti di ogni genere. Quel poco che avevamo l’abbiamo condiviso con chi non ha niente. Abbiamo bisogno di aiuto. Non possiamo abbandonare le nostre comunità in mezzo alla morte e alla distruzione”, conclude il vescovo del Sud Sudan.
Già nel luglio 2015 la fondazione pontificia Acs richiamò l’attenzione del mondo su questa martoriata nazione. A quattro anni dall’indipendenza (ottenuta nel 2011 con un referendum popolare) il Sud Sudan affrontò un terribile conflitto etnico. Che vide le forze governative del presidente Kiir (di etnia dinka) contrapporsi a quelle fedeli all’ex vicepresidente Machar (di etnia nuer). Lo scontro costrinse milioni di cittadini ad abbandonare le proprie case. E a rifugiarsi in Etiopia, Uganda, Sudan e Kenya. O nei campi per sfollati all’interno dello stesso Sud Sudan.
Per molti l’approdo nei campi di accoglienza non significò affatto la fine di un incubo. Molte donne rifugiate che si erano allontanate per cercare cibo per i loro bambini sono state violentate e picchiate. Mentre alcune di loro non sono mai tornate. “È come essere prigionieri nel proprio paese. Nell’unico posto al mondo in cui ci si dovrebbe sentire sicuri”, denunciò Aiuto alla Chiesa che soffre. L’assenza di una regolare iscrizione al registro dei profughi obbligò molti sud sudanesi a lavorare illegalmente in Sudan. per una retribuzione irrisoria. Mentre lo status di rifugiato avrebbe garantito loro protezione legale. E la possibilità di ottenere un permesso di lavoro.
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