La mediazione di Sant’Egidio per la distensione tra Sudan e Sud Sudan

Sudan

In un mondo funestato dalla pandemia e dall’instabilità politica si moltiplicano le aree di crisi dalla Libia alla Siria, dal Cile alla Thailandia, passando per il conflitto tra Armenia e Azerbaigian. Conflitti etnici e guerre civili sono aggravate da una crisi economica senza precedenti causata dalle restrizioni imposte per contenere i contagi del Covid 19.

In questo scenario allarmante ci sono due stati africani, uniti fino al 2011, che stanno percorrendo la via della pacificazione interna e della riconciliazione tra le diverse comunità che compongono la società. Stiamo parlando del Sudan e del Sud Sudan, i cui governi hanno recentemente firmato due importantissimi accordi di pace con i rispettivi gruppi ribelli dei due Paesi.

Non è un caso che alla base del processo di Pace del giovane Sud Sudan – che ha conquistato l’indipendenza dal Sudan nel 2011 con un referendum approvato a larghissima maggioranza – ci sia la mediazione della Chiesa locale, della Comunità di Sant’Egidio e della diplomazia della Santa Sede che hanno sapute mettere intorno ad un tavolo tutti i principali attori del Paese. Una delle tappe fondamentali di questo percorso è stato l’incontro organizzato in Vaticano alla vigilia di Pasqua del 2019, a cui presero parte il presidente del Sud Sudan, Salva Kiir, ed il leader della fazione armata ribelle Riek Machar. In quell’occasione Papa Francesco ruppe ogni protocollo e si prostrò ai loro piedi, chiedendo che “il fuoco della guerra si spenga una volta per sempre”. Le parti che avevano raggiuto un primo accordo di pace nel 2018 qualche mese dopo riuscirono a comporre un governo di unità nazionale.

L’impegno della Chiesa cattolica è andato avanti e la scorsa settimana a Roma presso la sede di Sant’Egidio è stata siglata una dichiarazione di principi che fissa le questioni che saranno al centro dei colloqui per il futuro Stato democratico del Sud Sudan e un accordo per coinvolgere tutti i gruppi ribelli nel monitoraggio del rispetto del cessate il fuoco, compresi quelli rimasti fuori dall’accordo del 2018.

Il governo del Sud Sudan e i movimenti di opposizione riuniti sotto la sigla del Sud Sudan Opposition Movement Alliance (SSOMA) hanno concordato una road map per raggiungere una pace duratura e varare una riforma della costituzione. I negoziati erano stati interrotti nel febbraio scorso a causa della pandemia e sono ripresi questo autunno grazie al grande lavoro di mediazione della comunità di Sant’Egidio, che è riuscita a coinvolgere anche l’ONU, l’Unione africana, gli Stati Uniti e l’Unione europea.

Una grande ventata di speranza arriva contemporaneamente dal Sudan, dove, ad inizio ottobre, il governo centrale di Khartum e il Fronte Rivoluzionario Sudanese hanno firmato un accordo di pace per le regioni del Darfur, del Nilo Blu e del Kordofan meridionale. Dopo 17 anni di violenze, l’intesa mette fine ai combattimenti che hanno causato centinaia di migliaia di vittime. Solo in Darfur la guerra ha provocato dal 2003 almeno 300.000 morti e 2,5 milioni di sfollati. A fronteggiarsi furono gli arabi sostenuti dal governo e i gruppi etnici locali molti dei quali di confessione cristiana.

In Sudan il processo di pace è stato particolarmente sostenuto dagli Stati Uniti. Proprio ieri il presidente Trump ha annunciato che intende togliere il Paese africano dalla lista degli Stati che sponsorizzano il terrorismo. Questo consentirà a Karthoum di accedere ai prestiti internazionali, agli aiuti necessari a risollevare l’economia in difficoltà e a creare un clima di reale democrazia. Il Sudan in cambio pagherà 335 milioni di dollari alle vittime di terrorismo e alle loro famiglie statunitensi. Il premier sudanese, Abdalla Hamdok, ha avuto parole di ringraziamento per gli Usa e ora si attende la ratifica ufficiale da parte del Congresso americano della revoca della designazione del Sudan come “stato canaglia”. Molti sono i passi ancora da compiere ma dall’Africa viene un segnale non trascurabile per in mondo intero.