Stupro, dire basta a chi cerca ancora di colpevolizzare le vittime

Quando la vittima viene fatta diventare il colpevole, cosa si intende per "cultura dello stupro"

Secondo quanto riportato da RAINN, la principale associazione contro le violenze sessuali negli Stati Uniti, ogni 73 secondi un cittadino statunitense viene molestato sessualmente. Questo sondaggio riguardante l’Inghilterra e il Galles afferma che 1,6 milioni di persone di età compresa tra 16 e 74 anni sono state violentate. I dati sul tema sono preoccupanti, soprattutto perché la gran parte delle vittime non denuncia l’accaduto. Ciò che è ancora più allarmante è il modo in cui la società percepisce il problema. La “cultura dello stupro” è un termine utilizzato a partire dagli anni ’70 per descrivere una situazione in cui l’abuso sessuale è normalizzato, comune e accettato dalla società. Inoltre, gli stupratori vengono protetti, giustificati, mentre le vittime vengono umiliate e ritenute responsabili dell’accaduto.

Colpevolizzazione delle vittime

Uno dei problemi principali che derivano dalla cultura dello stupro è il ruolo che assumono le persone che subiscono l’aggressione. Invece di essere considerate vittime, sono viste come coloro che hanno incitato lo stupratore attraverso i loro comportamenti. Ciò diventa evidente soprattutto quando le vittime sono donne.

  • “Cosa indossavi?”: alle vittime viene spesso chiesto cosa stavano indossando nel momento in cui sono state aggredite, come se fosse naturale che indossare un certo tipo di abbigliamento provochi una determinata reazione in chi ci circonda. Si presume che, se le vittime indossano abiti succinti o colori vivaci, avrebbero dovuto prevedere l’aggressione. Tuttavia, un abito non incita allo stupro. A dimostrazione di ciò, nel 2018 in Belgio si è tenuta una mostra intitolata “Is it my fault?“, dove sono stati esposti gli abiti indossati dalle vittime quando sono state aggredite. La collezione comprendeva pigiami, tute da ginnastica, jeans e magliette basiche. Tutti noi dovremmo essere liberi di vestirci come meglio crediamo, senza aver paura di essere violentati. Inoltre, l’abbigliamento non implica il consenso: la persona che lo indossa è l’unica ad avere l’autorità di decidere cosa succede al proprio corpo.
  • Consumo di alcol e droghe: la colpevolizzazione della vittima si verifica anche quando una vittima di molestie sessuali si trovava sotto l’effetto di alcol o droghe e non era quindi in grado di intendere e volere ed esprimere il proprio consenso. Se una persona si trova in tale stato, approfittare della sua condizione è a tutti gli effetti un reato.
  • “Perché non hai reagito?”: con questa domanda, le vittime vengono accusate di non aver fatto abbastanza per sfuggire dalla situazione. Questa ipotesi è estremamente pericolosa in quanto può portare le vittime a incolpare sé stesse per l’accaduto e non sporgere denuncia.

Istruzione, libertà e legge

Fin dalla tenera età, veniamo educati ad evitare alcuni comportamenti con lo scopo di non diventare delle potenziali vittime di stupro. Quando si tratta di giovani, viene detto loro di non frequentare determinate zone quando sono soli, si consiglia loro di stare sempre all’erta. Tutti dovrebbero ovviamente essere al corrente delle aree e delle circostanze pericolose, ma attribuire questa responsabilità esclusivamente alle potenziali vittime le porta a sentirsi insicure e spesso le costringe a rinunciare alla propria libertà. La priorità dovrebbe essere quella di diffondere la consapevolezza sul fatto che lo stupro è una questione estremamente seria e che i trasgressori vengono perseguiti dalla legge. Ma in che modo la legge tutela i diritti delle vittime? Come viene illustrato in questo articolo, negli Stati Uniti solo lo 0,7% circa delle denunce per violenza sessuale si conclude con la condanna dell’autore del reato. Finché i Governi non produrranno leggi che accusano l’abuso sessuale come un crimine grave e che hanno conseguenze concrete su coloro che lo commettono, le vittime continueranno a sentirsi non sufficientemente tutelate.

Beatrice Koci è tirocinante della Cooperativa sociale Volunteer in The World