Il soliloquio come modalità di problem solving

Parlare da soli è una patologia o un'abitudine? Potrebbe anche essere un'occasione di riflessione per un più equilibrato esame di coscienza

Il parlare da soli (discorso autodiretto) rappresenta oggi, in un mondo schizofrenico, iperveloce e “autogiustificante”, un’occasione di riflessione per giungere a un più equilibrato esame di coscienza. Patologia o abitudine? Si tratta di una fattispecie comune che ha dei contenuti positivi poiché stimola il cervello, facilita l’autocontrollo, l’autostima e la motivazione.

Tale tipo di dialogo accompagna il bambino sin dalla tenera età, dalle sue prime esperienze del linguaggio e poi lo segue nel gioco e nelle prime strategie di “problem solving”, Con la crescita, tale verbalizzazione può rappresentare un modo per rassicurarsi e far prevalere la ragione nei momenti in cui l’istinto, o la distrazione, sembrano avere la meglio, attraverso le cosiddette meta-regole del discorso autodiretto.

Il contributo attentivo è, senz’altro, quello più rilevante, poiché la ripetizione, come processo mentale, di un comando o di un’azione, può aiutare il singolo a compierla in maniera migliore. Ripetere le istruzioni passo passo equivale a consolidarle e a interiorizzarle, come se si ripetesse una lezione prima di un esame; contribuisce, inoltre, a un’attenzione selettiva, con il fine di tralasciare gli aspetti meno rilevanti.

Si favoriscono l’associazione mentale e la percezione sensoriale, consentendo la mappatura dell’ambiente e delle operazioni da affrontare per la risoluzione di un’incognita; il tutto nell’ordine della percezione del problema, la sua individuazione, l’analisi, le possibili ipotesi di soluzione, le verifiche di quest’ultime e la decisione finale.

L’opinione pubblica ha sempre considerato negativamente i passanti che parlavano da soli.

Negli ambienti al chiuso (quali la casa e l’ufficio), recitare il proprio pensiero aiuta a definire le azioni da compiere, a riflettere. Il soliloquio riguarda, quindi, più la sequenza di eventi che riflessioni di carattere generale. Al contrario, per strada, la voce alta in solitario, in genere non si accompagna a una costruzione “tayloristica” dei processi di lavoro bensì a divagazioni. Un osservatore tende, in tal caso, a “giustificare” meno l’esigenza di parlare da soli e bolla come “svitato” chi lo fa.

Gli effetti del soliloquio sono intenzionali e prodotti volontariamente, a volte talmente abitudinari al punto da non farci caso; altre esternazioni, invece, sono di carattere involontario, come un’esclamazione di dolore, una risata o una lacrima.

Il parlare da soli costituisce una forma di esame interiore, condizione poco diffusa nella società che non dà tempo e modo di fermarsi a pensare.

Esternare il proprio pensiero durante le occupazioni quotidiane, può rendere più efficaci e concreti i dettami suggeriti dal “grillo interiore” che è in ciascuno.

La ritrosia che, a volte, si prova nello sviscerare i pensieri con l’altro, può essere, in parte, vinta, attraverso il confronto allo specchio. Rimane il rischio che tale riflessione possa essere scevra da qualsiasi forma di autocritica.

È opportuno, quindi, che l’introspezione si consolidi e produca i suoi frutti poiché il paradosso potrebbe essere quello di “non ascoltar neanche se stessi”.

Il rischio è di sviluppare una tendenza all’eccessivo rimprovero verbale di se stessi, creando, oltretutto, sensi di colpa infondati. Altrettanto dannosa è la propensione inversa: quella di autogiustificarsi su tutto, di credersi sempre nel giusto, nel vero, di saper discernere, da soli, tra il bene e il male.

“E siate facitori della parola e non uditori soltanto, ingannando voi stessi. Poiché, se uno è uditore della parola e non facitore, è simile a un uomo che osserva la sua faccia naturale in uno specchio; egli osserva se stesso e poi se ne va, dimenticando subito com’era. Ma chi esamina attentamente la legge perfetta, che è la legge della libertà, e persevera in essa, non essendo un uditore dimentichevole ma un facitore dell’opera, costui sarà beato nel suo operare”. Giacomo 1:22-25.

Nel maggio scorso, per “Bompiani”, è uscito il volume dal titolo “Lo sguardo dell’anima è la ragione” (sottotitolo “Agostino. Soliloqui. Sulla bugia”). “Agostino dialoga con Agostino. Nei Soliloqui come in uno specchio trova l’interlocutore a cui sottoporre dubbi e aspirazioni, a cui rivelare le più profonde fragilità. Il dialogo diventa strumento per scandagliare lo spirito su due argomenti cardine: Dio e l’anima. Di grande modernità anche la riflessione sulla bugia, che ha due volti perché il bugiardo possiede un cor duplex. Non è bugiardo chi dice il falso, perché potrebbe sbagliarsi, scherzare o farlo per indurre a credere il vero. Mente chi è doppio nella volontà, esprimendo con parole e altri mezzi qualcosa di diverso rispetto a ciò che crede vero”.

La solitudine contemporanea, flagello che investe molte persone, sole fisicamente o psicologicamente, induce al soliloquio: chi vive da solo è tendenzialmente più portato a “scambiare due chiacchiere” con se stesso. È una circostanza che può, al tempo stesso, aiutare a sentir meno il peso della solitudine, al pari di una radio o di un televisore accesi.

Il Rapporto annuale 2022 “in pillole” dell’Istat, fotografa la nuova mappa della solitudine. Fra i vari dati, si legge: “Le famiglie sono sempre di più, 25,6 milioni nel 2020-2021, ma sempre più piccole: il numero medio di componenti della famiglia scende a 2,3 da 2,6 del 2000-2001. Sull’aumento del numero delle famiglie pesa il forte incremento di quelle costituite da una sola persona, passate dal 24,0% del totale di inizio millennio al 33,2%. In aumento anche le famiglie composte da un solo genitore che vive con i figli senza altri membri aggiunti (quasi una famiglia su dieci).  Diminuiscono invece le famiglie costituite da coppie con figli e senza altre persone (quasi 8 milioni, 31,2% del totale nel 2020-2021, -11,1 punti percentuali in vent’anni). Nel Nord-est le persone sole e le coppie con figli si equivalgono (ciascuna il 30% del totale), nel Centro e nel Nord-ovest prevalgono le famiglie unipersonali (36% contro 28% circa delle coppie con figli) mentre nel Mezzogiorno risultano ancora preponderanti le coppie con figli (circa 36% contro circa 30% delle persone sole)”.

Il soliloquio condotto all’eccesso, patologico, come unica e vera forma di linguaggio, può denotare difficoltà di integrazione, solitudine e disturbo di personalità; in tal caso è necessario intervenire mediante l’ausilio di professionisti.

Nel web sono ricorrenti i risultati degli studi, effettuati dalla classica università o centro di ricerca statunitense, che confermano quanto coloro che parlano da soli, “siano più intelligenti degli altri” (tali ricerche forse, inconsciamente, tendono a “riscattare” chi è deriso per il comunicare in solitudine).

Non si tratta, tuttavia, di una gara o di una classifica per verificare se il QI di chi pensa in silenzio sia più alto o più basso di chi rimugina parlando. È opportuno, piuttosto, studiare sempre meglio le origini del fenomeno e capire quando e quanto sia funzionale, sino al confine con l’inutilità o, peggio, della dannosità.

La locuzione “più intelligenti degli altri”, nei suddetti studi ricorre spesso, perché sembra indispensabile confermare una sorta di competizione continua. Qualcuno è necessariamente “più”. Nella società della divisione, della rivalità  e degli schieramenti, si verifica anche questo. È bene sottolinearlo, a “voce alta”.