Sociale

La Tenda: da 40 anni tra i bisogni del Tiburtino III

A Roma, c’è una comunità terapeutica che da quarant’anni opera nell’ambito della tossicodipendenza e che ora rischia di chiudere i battenti a causa di uno sfratto. Si tratta di La Tenda, nata nel 1983 per ridurre l’alto livello di disagio sociale presente sul territorio, ponendo particolare attenzione alla problematica della devianza giovanile e a quella della dipendenza da sostanze.

L’associazione negli anni ha lavorato nei vari ambiti della tossicodipendenza, dalla prevenzione alla riduzione del danno, dalla cura alla riabilitazione in comunità e al reinserimento socio lavorativo. Nel 1998 poi, è stata riconosciuta ente ausiliario della Regione Lazio e nel 2014 è arrivato l’accreditamento con il sistema sanitario nazionale.

L’intervista

Interris.it ha intervistato il responsabile della comunità Marco Bruci, per capire cosa sta succedendo e, soprattutto, che cosa vorrebbe dire per l’intera area perdere un punto di riferimento così importante.

Marco, che territorio è quello in cui La Tenda opera?

“Ci troviamo a Tiburtino III, un quartiere della periferia romana con delle evidenti difficoltà, in primis lo spaccio e la dispersione scolastica. La nostra presenza qui è la dimostrazione che stiamo in mezzo ai problemi della gente e cerchiamo di risolverli partendo dalla radice. Negli ultimi anni, nonostante non sia facile estirpare delle piaghe presenti da così tanti decenni, questa zona sta cercando di riqualificarsi, creando delle nuove risorse e dando delle risposte alle esigenze di chi ogni giorno vive questo quartiere”.

In cosa consiste il vostro lavoro?

“Innanzitutto La Tenda è un centro semi residenziale, ovvero i nostri assistiti arrivano al mattino alle 9.30 e se ne vanno alla sera. Ad oggi ospitiamo otto persone, di cui quattro stanno scontando una pena in maniera alternativa rispetto al carcere. Durante il giorno c’è una seduta di psicoterapia e altre attività che servono a prevenire il consumo di sostanze e ad allontanare la dipendenza. La terapia dura 18 mesi e alla fine del percorso li supportiamo nella ricerca di un lavoro in quanto crediamo che questo sia il primo passo per ritornare ad essere una parte attiva della società”.

Perché siete a rischio di sfratto?

“La nostra sede è di proprietà della Asl Roma 2 e dopo molti anni sembra che abbia bisogno di riavere i locali in quanto servirebbero per ricollocare il SerD. Ad oggi ancora non si è capito se questo servizio verrà posto al piano inferiore della nostra comunità, oppure al posto nostro, per cui stiamo vivendo in una sorta di limbo. La nostra prima preoccupazione è quella di sradicarci da un territorio che ci conosce e si fida di noi. Inoltre, ci spaventa la prospettiva di un SerD proprio sotto la nostra comunità, perché significherebbe che i nostri assistiti che ancora si trovano nel tunnel della tossicodipendenza avrebbero la possibilità di venire in contatto con altre persone con le medesime difficoltà e dunque di accedere facilmente alle sostanze”.

Che cosa significherebbe per  il Tiburtino III non avervi più lì?

“Sicuramente perdere un punto di riferimento importante in quanto la nostra comunità è nata proprio per dare una risposta a dei bisogni e tutto ciò che ora siamo è stato creato dalla gente di questo quartiere. Nel 1983 con il boom dell’eroina tutti, comprese le istituzioni, furono presi alla sprovvista e un gruppo di madri del Tiburtino III fece una protesta per attirare l’attenzione su cosa stava accadendo. Come risposta fu data loro una tenda dove potevano accogliere i ragazzi che usavano  sostanze e da quel gruppo di donne è nata la nostra comunità. Noi in tutti questi anni abbiamo cercato l’integrazione e a breve dovrebbe partire un progetto di prevenzione che coinvolgerà anche le scuole e i giovani di Tiburtino III a cui verranno resi accessibili degli spazi della comunità. Noi conosciamo questo territorio e per questo sappiamo comprenderlo e muoverci tra le fragilità presenti e vorremmo continuare a lavorare qui con la passione che fino ad oggi ci ha caratterizzato”.

Elena Padovan

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