“Rotta balcanica”, speranza e sofferenza alle porte d’Europa

La "Rotta balcanica" è una delle principali vie migratorie verso l'Europa e, negli ultimi anni, è stata percorsa da migliaia di persone in cerca di un futuro migliore. Interris.it ha fatto il punto con il dott. Marco Calvetto, presidente nazionale di Ipsia Acli

Migranti
Foto di Barbara Zandoval su Unsplash

La rotta dei Balcani occidentali è una delle principali vie migratorie verso l’Europa che, negli ultimi anni, ha visto l’attraversamento di centinaia di migliaia di persone in fuga da guerre, miseria e catastrofi climatiche verso una vita migliore. Essa si definisce comunemente “Rotta balcanica” ed è il percorso compiuto dai migranti provenienti dal Medio Oriente e dall’Asia per raggiungere l’Europa passando da Turchia, Grecia, Macedonia del Nord, Serbia e Bulgaria, oppure dalla Bosnia Erzegovina, per arrivare in Croazia e, di conseguenza, in Europa. Interris.it, in merito all’attuale situazione dei migranti lungo questa rotta e alle opere di prossimità messe in atto nei loro confronti, ha intervistato il dott. Marco Calvetto, presidente nazionale di Ipsia Acli.

Area rurale bosniaca (@ abdurahman iseini su Unsplash)

L’intervista

Presidente Calvetto, la Bosnia Erzegovina è un Paese di transito per i migranti della cosiddetta “rotta balcanica”. Qual è la situazione attuale su questo versante?

“La situazione, su questo versante, è sempre molto variabile. La Bosnia, attualmente, ha allentato parzialmente i controlli quindi, ad oggi, la rotta balcanica è ancora molto percorsa in quanto, generalmente, rispetto a quella del Mediterraneo, è più sicura. Le persone, rispetto ai periodi precedenti, transitano più velocemente verso i confini europei. Pertanto, i diversi tentativi di attraversamento dei valichi e dei sentieri per aggirare i controlli di frontiera, allo stato attuale, avvengono in maniera molto veloce dalla Bosnia verso la Croazia, finalizzati all’ingresso in Europa in direzione dell’Austria, della Germania e dell’Italia al fine di superare il confine francese passando per la Liguria o il Piemonte. Nei campi allestiti dal ministero della Giustizia bosniaco, gestiti con l’Unchr e l’Oim che, ad oggi, sono sei, non risiedono molte persone in forma stanziale ma, al contrario, si verifica un transito rapido di persone, le quali arrivano, si fermano e, dopo essersi riposati, tentano di passare le frontiere verso l’Unione Europea”.

Da quando Ipsia Acli è presente in Bosnia? Che tipo di azioni di aiuto avete intrapreso?

“Ipsia è in Bosnia da molto tempo. A seguito degli accordi di Dayton siglati nel 1995 è sul posto, e, dal 1997, ha una presenza stabile. È stata seguita l’evoluzione del Paese quindi, in una prima fase, si è fornito aiuto attraverso progetti di cooperazione allo sviluppo, mediante una ricostruzione strutturale, sociale ed economiche per permettere alle persone di vivere nuovamente una vita dignitosa, cercando di aiutarle a superare i traumi e le ferite postbelliche che, attualmente, sussistono ancora. Successivamente, continuando nella nostra presenza, abbiamo promosso campi di volontariato per accompagnare le persone nella ricostruzione di relazioni dinamiche e di pace tra di loro. Inoltre, abbiamo fatto anche alcuni interventi di emergenza legati ad alcune situazioni climatiche, come ad esempio le inondazioni”.

L’apertura della “rotta balcanica” risale ad ormai nove anni fa. Come ha agito e sta agendo Ipsia Acli per aiutare le persone che transitano in Bosnia?

Ipsia Acli ha incrociato i fenomeni migratori e l’apertura della ‘rotta balcanica’ nel 2015. Progressivamente abbiamo visto transitare un crescente numero di persone, le quali vivevano ai margini, per cercare di entrare in Europa. Ipsia, quindi, ha creato degli spazi, delle piccole realtà ed infrastrutture, a volte informali e altre più strutturate per garantire condizioni di vita umane e dignitose a queste persone. Ad oggi, collaboriamo all’interno di spazi istituzionalizzati, gestendo dei momenti che potremo definire di ‘umanità’ dove, per una volta, a queste persone non viene chiesto niente, si possono tranquillamente sedere e parlarsi, al fine di avere finalmente uno spazio in cui possono sentirsi degli esseri umani e non essere classificati, respinti o dare ragioni per il fatto di essersi messi in movimento. Abbiamo costruito dei social cafè e, la prospettiva è quella di dare vita a delle ‘safe house’, ovvero delle case che potranno dare accoglienza ai soggetti più fragili i quali attraversano la ‘rotta balcanica’ e stanno vivendo in Bosnia, quindi l’accoglienza di minori non accompagnati, donne vittime di violenza e persone con disabilità”.

Quali sono i vostri auspici per il futuro in riguardo al supporto dei migranti che transitano su questa rotta?

“Il tema migratorio è molto complesso e articolato. La ‘rotta balcanica’, ad oggi, è uno degli specchi attraverso cui si possono vedere le questioni e i problemi internazionali attualmente aperti. Basti pensare che, in Bosnia arrivano siriani, afghani, marocchini e altre persone da diversi Paesi dell’Africa. Non c’è tragedia umanitaria, bellica o climatica che non possa essere letta attraverso gli occhi delle persone che transitano attraverso questa rotta. L’auspicio è che, in futuro, l’Unione Europea, possa avere un approccio diverso ai temi migratori rispetto a quello attuale. Ad oggi, le istituzioni comunitarie, non hanno trovato soluzioni atte a garantire contesti di pace all’esterno dei propri confini, se non provando ad aumentare quest’ultimi, spendendo molti soldi per i controlli e per i respingimenti delle persone. L’Europa, a breve, a medio e a lungo termine, non ha una visione in merito a quelli che saranno i fenomeni migratori da qui in avanti. Alla luce di ciò, occorre prevedere canali di ingresso diversi e percorsi più umani di accoglienza e orientamento. Stanno aumentando le spese militari ma, al contrario, gli investimenti in cooperazione internazionale, continuano a diminuire. Così facendo, non esistono né percorsi di ingresso né di emancipazione vera e, l’unica risposta data loro, è quella di ostacolare la libera possibilità di cercare un’occasione migliore di vita, ovunque essa sia. Occorre uscire dalle logiche di mera contrapposizione, le quali impediscono di trovare delle soluzioni possibili e sostenibili, per le persone, per i nostri Paesi e per coloro che sono costretti a partire. L’importante è rimettere al centro le persone”.