“Per questo mi chiamo Giovanni”, l’intervista a Luigi Garlando

L'intervista a Luigi Garlando autore del libro "Per questo mi chiamo Giovanni" (pubblicato da Rizzoli) che racconta la vita dei due magistrati a trent'anni dalle stragi

Giovanni Falcone, quando pronunciò la famosa frase “Gli uomini passano, le idee restano e continuano a camminare sulle gambe di altri uomini” era sicuramente convinto che, se la mafia lo avesse fermato, come poi è realmente accaduto, altri uomini delle istituzioni avrebbero continuato la sua opera, affinché la criminalità continuasse ad essere combattuta. Falcone fu ucciso il 23 maggio del 1992 e 57 giorni dopo, il 19 luglio, toccò al suo amico e collega Paolo Borsellino. Entrambi assassinati dalle cosche mafiose.

Per questo mi chiamo Giovanni

Per ricordare Falcone, Borsellino e tutte le altre vittime di Cosa Nostra, abbiamo incontrato il giornalista e scrittore Luigi Garlando, autore del libro “Per questo mi chiamo Giovanni” (pubblicato da Rizzoli), con prefazione di Maria Falcone. Il libro racconta la storia di Giovanni, un bambino di Palermo. Per il suo decimo compleanno il papà gli regala una giornata speciale, da trascorrere insieme, per spiegargli come mai, di tutti i nomi possibili, per lui sia stato scelto proprio quello Giovanni. Tappa dopo tappa, mentre prende vita il racconto, padre e figlio esplorano Palermo e la storia di Giovanni Falcone, rievocata nei suoi momenti chiave, s’intreccia al presente di una città che lotta per cambiare. Giovanni scopre che il papà non parla di cose astratte: la mafia c’è anche a scuola, nelle piccole prepotenze dei compagni di classe, ed è una nemica da combattere subito, senza aspettare di diventare grandi.

Luigi Garlando, Falcone e Borsellino sono ancora attuali e che insegnamento ci hanno lasciato?

“Sono attualissimi perché ancora oggi la mafia è attuale. Quando si parla di Cosa Nostra, inevitabilmente il ricordo va alle stragi e agli omicidi mafiosi. Purtroppo il mostro che hanno combattuto è ancora attuale, perché s’insinua in maniera più subdola nei meccanismi istituzionali del nostro Paese. Questi uomini hanno sacrificato la loro vita. L’Italia dovrà essere sempre grata per il loro sacrificio: hanno consentito al nostro Paese di avere strutture investigative e norme che possono contrastare efficacemente la criminalità organizzata. Ricordare questi uomini significa che la pericolosità delle mafie per la nostra democrazia è sempre enorme e che bisogna fare l’impossibile per combatterle efficacemente”.

Molti degli studenti che lei incontra non hanno vissuto le stragi. Secondo lei che idea si sono fatti di quel periodo e cosa rappresentano per loro i due giudici?

“Gli anni ‘90 sono il simbolo della lotta alla mafia e quel periodo funesto è stato un grande momento storico della vita del nostro Paese, paragonabile a un altro grande avvenimento italiano, quello del 25 aprile. Per i giovani, Falcone e Borsellino sono paragonabili agli eroi della Resistenza, hanno combattuto e si sono sacrificati per restituire la libertà alla loro terra”.

I ragazzi si rendono conto che il fenomeno sociale e criminale della mafia è ancora oggi spesso tacitamente accettato?

“È sempre sbagliato sottovalutare la mafia, oggi Cosa Nostra non mette più le bombe, non uccide uomini delle istituzioni, ma continua i suoi loschi affari senza far rumore. Oggi la mafia è un business, è una holding a livello internazionale che gestisce la propria economia, gli appalti e il traffico della droga. Non ci sono più i famigerati uomini con la coppola e la lupara, oggi la mafia è governata dai colletti bianchi, persone laureate, che sanno più di una lingua, esperti di finanza ed economia. Sono questi soggetti, molto più pericolosi, che si insinuano come metastasi nella parte sana della nostra società cercando di distruggerla o plasmandola a loro favore, aumentando così il proprio potere di corruzione, infiltrandosi nelle amministrazioni, quindi dentro lo stato. La mafia non è più una realtà locale, ma ha bisogno di mercati per espandersi, è più radicata a settentrione, perché l’Italia del nord è più ricca. La mafia, il ‘mostro’ come la chiamo nel mio libro, è cambiata negli anni, ma non per questo fa meno paura”.

Gli studenti che incontra sono pronti a diventare la nuova classe dirigente di questo paese rispettando le regole?

“Sono ottimista come lo erano Falcone e Borsellino. Erano magistrati pieni di impegni, ma trovavano il tempo di andare nelle scuole per parlare con gli studenti, facendoli riflettere sul loro futuro, erano convinti che per sconfiggere la mafia dovevano spendere tempo nelle scuole e con i giovani. I mafiosi che li uccisero non capirono che il loro insegnamento, si sarebbe poi diffuso rafforzandosi e diffondendosi trasmettendo quegli ideali di giustizia e di libertà che si sono radicati nelle coscienze di tante persone”.

Secondo lei i due magistrati non avevano mai paura?

“È sicuro che si sentivano un bersaglio, ma lavorarono senza risparmiarsi, sapevano di non avere molto tempo. Falcone si salvò dall’attentato dell’Addaura perché il telecomando che doveva far esplodere un ordigno posizionato vicino alla sua villa non funzionò, ma questo ritardò solo di qualche anno il suo assassinio. Gli vennero recapitati molti pizzini intimidatori, tra i quali in particolare quello che lo informava del tritolo arrivato a Palermo per ucciderlo. Anche Borsellino apprese di essere nel mirino della mafia, anche se forse non immaginava di morire 57 giorni dopo la strage di Capaci”.

Avevano paura di venire uccisi?

“Era così forte il senso di dovere per la missione che svolgevano che probabilmente erano immuni alla paura. Falcone aveva un bigliettino nel suo portafoglio con una frase di Kennedy: “Un uomo fa ciò che è suo dovere fare, quali che siano le conseguenze personali, quali che siano gli ostacoli, i pericoli o le pressioni. Questa è la base di tutta la moralità umana”. Questa citazione, diventata poi il suo stile di vita, probabilmente ha disinnescato la paura, convinto di essere fedele alle istituzioni e combattere la mafia per la libertà”.

In molte foto, spesso sorridono amichevolmente tra loro. Come potevano, facendo una vita blindatissima?

“Entrambi amavano la vita e quei sorrisi sono la testimonianza diretta del loro ideale profondo, fatto di giustizia e legalità, idee, una passione che dà un senso alla vita. Vivevano vite blindate, ma avevano il tempo di vedersi, incontrarsi e sorridere, perché la vita è fatta anche di queste piccole cose”.

Pubblicato sul settimanale Visto