Messina Denaro, un anno dopo: cosa è cambiato (e cosa no)

Dodici mesi fa, il boss del mandamento di Castelvetrano veniva arrestato, terminando la sua latitanza trentennale. Ayala: "La mafia sta cercando di passare inosservata"

Matteo Messina Denaro
Foto: frame

Una mattina di pioggia di inizio anno, l’attenzione dei media nazionali catalizzata sulla Sicilia, come nei giorni delle stragi di mafia. Stavolta, però, sugli schermi non passavano immagini di sangue e tritolo. Piuttosto, dei frammenti di storia che, di fatto, chiudevano un’epoca. Anzi, quell’epoca lì, quella della guerra della mafia allo Stato, con il cammino verso il carcere dell’ultimo boss identificabile con quel periodo, Matteo Messina Denaro, che terminava i suoi trent’anni di latitanza al termine di un controllo medico. Uno dei tanti che, per ragioni di salute, aveva effettuato e stava ancora effettuando nel cuore di Palermo, alla luce del sole, anche se sotto un’identità fittizia.

Messina Denaro, il fantasma

Il primo dei grandi misteri a cui dare risposta. Un semplice cambio di nome che, a quanto pare, è stato in grado di celare agli occhi del mondo la presenza di uno dei boss più feroci di cosa nostra, fantasma per quasi tre decenni e riapparso solo nella fase terminale della sua grave malattia. Al termine di un’indagine, quello sì, condotta con perizia ed efficienza, che ha permesso di capire come, dietro il nome di Andrea Bonafede, si celasse il capo del mandamento di Castelvetrano. Un arresto che, sulle prime, aveva dato l’impressione del bandolo della matassa, da sciogliere man mano per ricostruire appieno gli anni delle violenze di mafia, aggiungendo tasselli di verità mancanti rivelabili solo dal boss fantasma. Già nelle ore successive, tuttavia, la sensazione di trovarsi di fronte alla chiusura di un capitolo della nostra storia recente, aveva lasciato il posto a nuove domande. In primis, sul perché la presenza dei covi di Messina Denaro a Campobello di Mazara fosse passata inosservata.

Arresti e misteri

Per questo, fin da subito, le indagini hanno battuto la pista dei fiancheggiatori. Con arresti già nei giorni e nei mesi successivi, tra chi era sospettato di aver fornito al boss l’identità fittizia e chi di averlo aiutato nello svolgimento delle cure mediche, pur conoscendo le sue vere generalità. Con un interrogativo martellante, rimasto tale fino al 25 settembre 2023, giorno in cui la malattia ha messo fine alla vita di Messina Denaro. E legato, chiaramente, al vero peso del suo arresto, definito un giorno importante per lo Stato italiano anche in funzione di ricostruzioni, giudiziarie e di cronaca, più chiare. Quasi nulla di tutto questo, avendo mantenuto omertà sui nomi e, anzi, rigettando l’accusa di aver ordinato l’esecuzione del piccolo Giuseppe Di Matteo, pur ammettendo di averne chiesto il rapimento.

Ayala: “Un’indagine impeccabile”

Qualche passo avanti c’è stato però, e non solo per gli arresti (e qualche prima condanna) nella cerchia dei fiancheggiatori. “Ci sono delle indagini ancora in corso – ha spiegato a Interris.it l’ex magistrato Giuseppe Ayala – soprattutto per individuare il patrimonio di Messina Denaro. Granché ancora non è stato individuato ma qualcosa si è iniziato a ricostruire. Per il resto, rimane un fatto importante che l’abbiano arrestato. Non va tolto nessun merito alla Procura di Palermo e ai carabinieri. È stata n’indagine impeccabile quella che è riuscita a risalire a Bonafede. Hanno centrato il punto fondamentale che ha portato alla cattura. Rimane il fatto che, per trent’anni, è rimasto latitante”. Un dettaglio non trascurabile, peraltro condiviso con altri boss, condannati in contumacia: “Il ‘record’ credo lo abbia Provenzano, arrestato nel 2006 (dopo 43 anni di latitanza, ndr). Purtroppo, negli anni, siamo stati tristemente abituati a queste lunghe latitanze. Certo è che, nel momento in cui un criminale come Messina Denaro finisce in carcere, si ha un senso di giustizia”.

Un errore strategico

Del resto, l’indagine e la cattura hanno consentito di porre fine a una latitanza pressoché senza tracce, che i quaderni del boss dedicati alla figlia hanno permesso di ricostruire con maggiore precisione: “Assieme a Giovanni Falcone – ricorda Ayala – viaggiammo moltissimo: non facevamo viaggiare le carte ma viaggiavamo noi, con i colleghi dei vari Paesi. C’era una forma di cooperazione e le nostre Forze dell’Ordine sono sempre state considerate un’eccellenza. E questa cattura, è la conferma della loro capacità tecnica raffinata”. Utile a fronteggiare un fenomeno complesso e pericoloso come le mafie, anche in un momento storico diverso rispetto a quello violento degli anni Novanta: “Non c’è più la strategia stragista. È stata un errore che hanno capito con ritardo. Fu quella ad accendere i riflettori su queste associazioni. È stata la guerra di mafia, costata nell’81-82-83 più di 300 morti l’anno, a comportare il fenomeno dei collaboratori di giustizia. Non riuscendo a uccidere Tommaso Buscetta, hanno ammazzato numerosi parenti. E lui ha consuma la sua vendetta tramite Falcone e lo fece in maniera seria, anzi, temendo di non essere creduto. E lo stesso fece Contorno, sopravvissuto a stento a un agguato”.

La “nuova” mafia

Forse, in questo senso, l’arresto di Messina Denaro ha davvero chiuso un capitolo. Pur non contribuendo, almeno per ora e anche per la sua morte, a chiarire quanto ci si aspettava. Tuttavia, con la fine di una figura legata a filo doppio col periodo delle stragi, è possibile che anche i connotati di cosa nostra siano cambiati. Più silente forse, ma non per questo meno pericolosa. “La mafia, come nell’800, sta facendo di tutto per passare inosservata. Molte volte stupisco i ragazzi quando dico loro, per sottolineare in maniera semplice quanta disattenzione ci sia stata sul fenomeno, che si è dovuto aspettare il 1982 per avere la parola ‘mafia’ nel Codice penale”. E anche un indizio di sottovalutazione del problema, che poi è il primo nutrimento per le mafie. Qualunque esse siano.