Io malata di Covid, vi racconto cosa vedo oltre la porta della mia stanza in ospedale

Un taglio di corridoio sempre illuminato. E’ tutto ciò che vedo dalla mia stanza, al reparto sub intensivo dell’Ospedale San Salvatore di Pesaro. Ho il mio letto e i cavi attaccati al petto, due borse piene di cose che mi ha portato mio padre. Poi c’è Michela (tutti i nomi sono di fantasia, ndr), con cui condivido la stanza e qualche parola. Più che altro ci riserviamo sbuffi e colpi di tosse, un commento sul tempo e ci rimettiamo a dormire sperando di tornare a casa presto. Mi racconta di sua figlia, si lamenta delle flebo e si copre gli occhi con un foulard. Non possiamo lasciare la stanza e le mascherine devono stare su. Medici e infermieri sono quasi irriconoscibili, coperti da capo a piedi, per non prendere il Covid.

Tutti i giorni mi sembrano uguali e la costante di questo taglio di corridoio un po’ mi tranquillizza. Dalle 6 che mi sveglio, fino a che non mi addormento, ci sono infermieri che passano. “Lucia tutto ok? E te Michela?”. “Tra poco passo a chiudere la finestra”. “Buongiorno! Vi misuro la pressione”. “Che frutta volete?”. “Avvocato!! Sempre a studiare?!”. “Ecco le tue medicine”.

In ospedale non ci si ferma mai. C’è sempre un campanello che suona, un esame da fare, un paziente da ricoverare. I medici si vedono poco. Una volta al giorno fanno il giro tra le camere, ci visitano e fanno qualche domanda. Di risposte, ce ne danno poche. E’ colpa del tempo, che a me non passa mai, ma che a loro non basta. Quindi chiedo poco, ringrazio e aspetto.

Qui ci sono dei riti, dei tempi tutti diversi e puntuali. Ed io li vedo a pezzi, attraverso la porta della mia stanza. Verso le 8 un infermiere passa per la colazione. Alle 12, nel taglio del corridoio che è sempre illuminato, si iniziano a preparare i pranzi. Alle 17 la merenda; alle 18 si cena. Tutte le mattine vengono a pulire la stanza, il bagno e a cambiare le lenzuola. Penso che quando hai a che fare con la malattia e quindi con gli imprevisti e le complicanze, il meglio che puoi fare è tenere insieme tutti i pezzi che hai e cercare di controllarli, fino a che ci riesci.

Gli occhi, i passi e le voci si iniziano a riconoscere. Ma se anche arriva qualcuno di nuovo ti fidi e ti affidi. La seconda notte mi sono svegliata di colpo con un’infermiera che mi sistemava gli elettrodi che si erano staccati, in silenzio e con delicatezza mi ha risistemata. Ho ringraziato e mi sono commossa, poi mi sono rimessa a letto sicura che qualcuno si prendeva cura di me.

Quando per 6 giorni tutto quello che vedi è un taglio di corridoio, finisci per credere che al di là del tuo letto sia davvero tutto lì, e che al di fuori di quel taglio non ci sia niente. Invece non è così: oltre la mia porta c’è tutto.

Al reparto sub intensivo di Pesaro ci sono 24 posti, 22 persone oltre a me e Michela, che mi sono così vicine ma che non vedo mai. A volte, però, sento le voci. C’è Marchino che urla sempre. E’ Niccolò a chiamarlo così: un infermiere alto e bizzarro che, chissà perché, non guarda mai negli occhi. Oltre la mia porta ci sono infermieri e medici che ogni giorno prendono l’ascensore e portano i pazienti al reparto intensivo, dove si lotta con il Covid e con la morte. Ci sono persone che stanno male davvero e combattono per sopravvivere.

Vi voglio raccontare quello che ho visto io in 6 giorni, perché sono stata bene tutto il tempo e lo posso raccontare. Non è così per tutti. Non lo è neanche per Michela che per il mal di testa non riusciva a tenere gli occhi aperti. Non lo è per gli altri pazienti, con cui ho condiviso questi corridoi e che forse oggi non ci sono più. Non lo è per i medici e per gli infermieri. Una dottoressa ha detto a me e a Michela: “Noi lo sappiamo che questo è il nostro mestiere e che lo abbiamo scelto, ma è sempre più difficile. Speriamo sia l’ultima ondata”. Non ho saputo dire niente. Sono due anni che gli ospedali continuano a riempirsi di gente che muore e si spera sempre che stia per finire. In silenzio mi sono arrabbiata con Michela e con tutti i no vax, dentro e fuori l’ospedale. Volevo chiederle scusa, chiedere scusa a lei e a tutto il personale che lavora qui. Dirle che qualcuno li vede, che io li vedo e li ringrazio.

Io sono finita in ospedale per una miocardite, un’infiammazione al muscolo cardiaco causata dal Covid o dal vaccino. Più probabile, da entrambi. Non è stato niente di grave ma i medici mi hanno voluto tenere sotto controllo qualche giorno. Penso alle cure che mi hanno riservato e mi sento in colpa ad essere qui. Sono stata bene tutto il tempo e ho paura di togliere il posto a chi ha bisogno. Poi mi rimprovero per questo pensiero, perché a gennaio 2022 il reparto Covid sub intensivo di Pesaro dovrebbe essere riempito solo di persone vaccinate, che tutto sommato stanno bene e che si prendono gli ultimi controlli di una pandemia che abbiamo scampato.

Invece non è così, gli ospedali sono pieni e gente continua a morire. Muoiono gli italiani che non si sono vaccinati. Ma a portare il peso di queste morti non sono solo le famiglie e le persone care. Sono Niccolò, Francesca e tutti gli altri medici e infermieri. Persone che non stanno solo facendo il loro mestiere, ma molto di più.

Io e Michela stiamo bene, torneremo a casa, ma ci sono tanti che non usciranno più. Tanti che stanno ancora entrando. Vaccinatevi. Scegliete di star bene.