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Dio è amore: la testimonianza di Joseph Ratzinger

Esattamente un anno fa (il 31 dicembre 2022) con la morte di Joseph Ratzinger si è chiusa una stagione senza precedenti in due millenni di storia cristiana. Quella di un pontificato regnante e di un pontificato emerito. In una delle loro ultime conversazioni, Peter Seewald, il suo intervistatore e amico, bavarese come lui, chiese a Benedetto XVI: “Lei è la fine del vecchio o l’inizio del nuovo?”. La risposta fu una rasoiata: “L’una e l’altro”. Nel congedarsi, alla fine di febbraio del 2013, dal Soglio petrino, Joseph Ratzinger tenne a precisare che nella sua elezione a Papa c’era stato qualcosa che sarebbe rimasto “per sempre”. Fino alla fine ha indossato l’abito bianco, ha firmato come “Benedictus XVI Papa emeritus“, ha abitato nel recinto di San Pietro e si è fatto chiamare “Santità” e “Santo Padre”. Solo le solenni esequie di Benedetto XVI hanno sciolto l’ambiguità. Terminando l’epoca inedita dei due papi che condividono fraternamente lo stesso spazio fisico (il Vaticano) e la medesima dedizione al bene supremo della Chiesa. Il 20 maggio 2016 fu proprio il suo segretario, l’arcivescovo Georg Gänswein, a ribadire che Benedetto XVI “non ha affatto abbandonato l’ufficio di Pietro”. Anzi, ne ha fatto “un ministero allargato, con un membro attivo e un membro contemplativo”. In “una dimensione collegiale e sinodale, quasi un ministero in comune“.

Benedetto alfa e omega

Una condizione del tutto singolare e anomala, scaturita dal gesto-choc dell’abdicazione, un’inaudita rottura nella storia del papato. Talmente sorprendente da far parlare lo stesso monsignor Gänswein di “una sorta di stato d’eccezione voluto dal Cielo”. E, come sottolinea il vaticanista Sandro Magister, “la novità assoluta non è la rinuncia, ma il dopo”. Quando il 13 dicembre 1294 Celestino V annunciò il suo abbandono del pontificato “discese dalla cattedra, prese la tiara dal capo e la pose per terra. Mantello e anello e tutto se ne spogliò di fronte ai cardinali sbalorditi”. E tornò semplice monaco, in totale ritiro dal mondo. Al contrario Francesco e Benedetto hanno vissuto “quasi un ministero in comune“, secondo la definizione del più stretto collaboratore di Ratzinger. È stato rintracciato a ritroso più di un segno premonitore della storica rinuncia di Joseph Ratzinger al pontificato. Soprattutto l’anello del pescatore, il simbolo della potestà pontificia, sfilatosi per errore nella Messa celebrata alla Cappella Sistina secondo il ripristinato rito antico (anello che in seguito scomparve ancora dal suo anulare per la frattura al polso durante la vacanza in Val d’Aosta). E la preghiera del 2009 nella Basilica dell’Aquila proprio sulla tomba del suo antico predecessore dimissionario Celestino V quando sussurrò all’arcivescovo della città: “Questo è fatto che fa pensare“. Chissà se nel cuore meditava di seguire il suo esempio.

Enigma

Il papato emerito, quindi, come enigma insoluto alla cui soluzione può contribuire il parallelo con un altro Pontefice incompreso, continuamente bersagliato da critiche interne ed esterne alla Chiesa eppure fondamentale per la storia del XX secolo come Paolo VI. Entrambi si sono trovati a reggere il timone della Barca di Pietro in periodi travagliati (gli anni di piombo Montini, il jihadismo Ratzinger), schiacciati tra pontificati fortemente mediatici come quelli di Giovanni XXIII, Giovanni Paolo II e Francesco. Entrambi provenienti dai ranghi della carriera vaticana. Sostituto della Segreteria di Stato il primo, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede il secondo. Una volta saliti sul Soglio petrino hanno messo mano con alterne fortune a riforme della Curia per poi ritrovarsi, in differenti fasi, sotto il fuoco incrociato di innovatori e conservatori. Da un lato chi li accusava di perseguire una restaurazione anti-conciliare, dall’altro chi, come la galassia lefebvriana, puntava l’ indice contro tradimenti formali e sostanziali della tradizione. A Paolo VI capitò in sorte di governare la Chiesa universale sotto l’assedio di scandali finanziari, annunci di scismi, “fumo di Satana entrato nelle sacre stanze“, infiltrazioni di logge massoniche nelle gerarchie ecclesiastiche. Benedetto XVI, invece, finì nel tritacarne di Vatileaks tra aiutanti di camera e maggiordomi che gli sottrassero dall’appartamento papale assegni, documenti riservati, pepite d’oro donate dai minatori cileni, libri antichi e persino i referti medici. Montini scrisse nel 1965 una lettera al decano del Sacro Collegio con le disposizioni in caso di sue dimissioni, Ratzinger ha abdicato.

Congedo

Ai funerali dell’allievo prediletto Aldo Moro, Paolo VI quasi rimproverò Dio di non aver ascoltato le sue preghiere per la liberazione dello statista rapito e ucciso dalle Brigate Rosse. Joseph Ratzinger, nel momento più drammatico della sua vita, un attimo prima di congedarsi, subì l’affronto di quanti all’interno del Sacro Collegio lo tacciavano di viltà per non essersi dimostrato fino in fondo un vero Vicario di Cristo. Gli fu pubblicamente rimproverato di aver abbandonato l’incarico affidatogli dallo Spirito Santo e lui ne uscì offrendo del gesto rivoluzionario un’interpretazione mistica: “Non scendo dalla croce, vi resto accanto“. Due papi teologi, intellettuali, poco comunicatori di massa e intimamente amletici nell’interrogarsi sui limiti e gli orizzonti della loro azione. Entrambi sfavoriti da peculiarità emotive poco adatte all’empatia con le masse, da caratteri riflessivi e miti. Ribattezzati crudamente dalla satira Paolo Mesto e Pastore tedesco o Panzerkardinal. Paolo VI ai sediari pontifici confidava di non riuscire a fare grandi sorrisi perché la sua bocca non si apriva più di tanto e il suo viso non gli sembrava adatto a una gioia ostentata. A Joseph Ratzinger non riuscivano bene gli incontri improvvisati con la gente, come gli capitava durante i rari momenti di riposo in montagna. Un Vicario di Cristo timido al quale succedeva spesso di arrossire per imbarazzo e pudore, persino di fronte a un giornalista che su un volo papale gli porgeva un rosario da benedire. Entrambi hanno mostrato l’altra faccia di Dio, non quella trionfante ma quella sofferente descritta dal teologo Sergio Quinzio. Nelle omelie dei funerali non disegnavano quadri consolatori, non dicevano che dietro una disgrazia c’è un disegno di Dio più grande che gli uomini non conoscono. Lasciavano aperta la porta al mistero. Tante le somiglianze con Paolo VI, dunque, ma altrettante le unicità di Ratzinger.

Eremo

Karol Wojtyla restò al suo posto fino alla fine, nonostante all’Angelus la malattia gli inibisse addirittura l’uso della parola. Anzi fece dell’invalidità una pastorale della sofferenza. Benedetto XVI, al contrario, appena sentì venir meno le energie necessarie a proseguire la missione, scelse il nascondimento dal mondo, la preghiera solitaria. Tra le ultime mete dei viaggi apostolici, la certosa di Serra San Bruno, dove forse trovò rifugio il fisico Ettore Majorana, inspiegabilmente scomparso, e dove gli statuti dell’eremo tracciano il secolare identikit del monaco. Separato da tutti ma unito a tutti per stare “a nome di tutti al cospetto del Dio Vivente”. Quasi un manifesto del pontificato emerito. È non è un caso forse che, nel clima crepuscolare del Vaticano d’inizio terzo millennio, due film Habemus
papam di Nanni Moretti e The Young Pope di Paolo Sorrentino abbiamo trasferito sulla pellicola il malessere e i rovelli interiori di immaginari pontefici in crisi di senso e vocazione.

Croce

Benedetto XVI è stato Papa della parola, non del gesto. Non istintivamente amato dalle folle, anche perché allo scarso calore popolare che accolse l’elezione al Soglio di Pietro, non fu indifferente la sua origine bavarese in una città eterna ferita indelebilmente nella psicologia collettiva dall’occupazione tedesca in tempo di guerra. In realtà, col tempo, il vescovo di Roma arrivato dalla Germania seppe farsi apprezzare dal popolo devoto e particolarmente da chi sapeva misurare il peso specificò di interventi profetici. “Quanta sporcizia c’è nella Chiesa. Quanta superbia, quanta autosufficienza!”, denunciò il Venerdì Santo del 2005 al Colosseo nelle meditazioni dell’ultima Via Crucis di Giovanni Paolo II. Del resto, un quarto di secolo prima, con la nomina del cardinale tedesco alla guida dell’ex Sant’Uffizio, proprio Karol Wojtyla aveva messo teologicamente al sicuro la Chiesa. Uscita modernizzata ma disorientata dal Concilio. Quasi presagendo che sarebbe toccato a Ratzinger, un giorno, condurre la Barca di Pietro. Dopo l’abdicazione, si è parlato di un Pontefice controvoglia, salito sul Soglio di Pietro quasi suo malgrado. In realtà ne scese per restare accanto alla Croce, come Maria mentre gli apostoli erano scappati.

Giacomo Galeazzi

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