Viaggio a Cuba: il grande merito di Giovanni Paolo II

A bordo del volo che lo condusse a Cuba, un giornalista americano chiese a Giovanni Paolo II che cosa si aspettasse dagli Stati Uniti al riguardo di Cuba: “To change! To change”, fu la risposta. Il papa giunse sull’isola di lì a breve e ben presto disse: “Il popolo cubano non può vedersi privato dei vincoli con gli altri popoli, che sono necessari per lo sviluppo economico, sociale e culturale, soprattutto quando l’isolamento forzato si ripercuote in modo indiscriminato sulla popolazione, accrescendo le difficoltà dei più deboli, in aspetti fondamentali come l’alimentazione, la sanità e l’educazione […]”. In definitiva disse che l’embargo era eticamente inaccettabile.

Da parte sua Fidel Castro, il leader Maximo che aveva fatto di Cuba – ma dal 1961 – uno stato ateo, quando morì Giovanni Paolo II scrisse nel libro delle presenze della Nunziatura il suo saluto personale “all’infaticabile combattente impegnato per l’amicizia tra i popoli, nemico della guerra e amico dei poveri”. Capire la visita di Giovanni Paolo II a Cuba, che è stata seguita da quelle di Benedetto XVI e di Francesco, è più importante di quanto possa apparire.

Giovanni Paolo II è stato il primo papa a visitare Cuba, dal 21 al 25 gennaio del 1998. Era molto lontana nel tempo l’elezione del primo papa sudamericano, come la frase che questi avrebbe detto ricevendo in Vaticano il presidente Obama: “Se vuole la simpatia per il suo Paese dei popoli dell’America Latina, risolva il problema di Cuba”. Eppure proprio questo sembra, detto in poche parole, lo scopo di quel viaggio di tanti anni prima, che ebbe come motto “Che Cuba si apra al mondo e che il mondo si apra a Cuba”. Dunque capire Cuba è capire un passaggio decisivo: a Cuba ha avuto luogo una rivoluzione, non è giunto al potere un regime imposto dall’Unione Sovietica, come in tanti Paesi dell’est europeo. La Cuba castrista – piaccia o non piaccia, questo qui non conta – è stata un prodotto autoctono; per molti un mito, per molti altri un fantasma, o un incubo. Questo confronto, come tutti i veri confronti, è stato legittimo, nelle aspettative e nei timori, ma Cuba dal giorno dell’embargo decretato dagli Stati Uniti è diventata altro: un simbolo di resistenza, evidente. Ecco perché la frase di Francesco a Obama ricorda lo slogan del viaggio di Giovanni Paolo II: “Che Cuba si apra al mondo e che il mondo si apra a Cuba”.

Ha scritto Andrea Riccardi: “L’isolamento, a suo modo, aveva radicalizzato tante scelte politiche del regime. D’altra parte, per chi non accettava di vivere in una situazione difficile da un punto di vista economico e particolare da un punto di vista politico, c’era la via dell’emigrazione”. Che il blocco decretato da Washington avesse determinato la radicalizzazione del regime castrista, come sostiene Andrea Riccardi, è confermato dal fatto che solo dopo la crisi della Baia dei Porci del 1961 il regime si proclamò ateo, prima non era così. Il 1961 emerge dunque come un momento di cambiamento, anche perché il fallito sbarco americano, finalizzato al rovesciamento del regime, deciso da un presidente cattolico, Kennedy, sarebbe stato sostenuto da ecclesiastici cubani e statunitensi. Solo successivamente il regime si proclamò ateo, mentre negli anni precedenti, dal ’58 ad allora, non si era mai definito tale e le abitudini religiose dei cubani non erano stato sfidate. Questo non vuol dire che Castro non espulse da Cuba anche il suo professore, guarda caso proprio nel 61. E’ emerso anche in occasione della visita di Francesco, quando il papa argentino regalò al Leader Maximo i libri scritti dal suo docente, padre Armando Llorente: un modo discreto per ricordarne l’espulsione, che non ha impedito a padre Llorente di ricordare Castro come un suo eccellente allievo. E’ importante ricordare inoltre che proprio Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires, costituì un gruppo di lavoro per studiare e apprezzare la visita a Cuba. Cominciare a cogliere l’essenza più importante, tra tante, di quel viaggio.

Chi pensava, seguendo una visione manichea, che il papa andasse a Cuba per far emergere una Polonia latino americana ha potuto restare sorpreso dallo sviluppo del viaggio cubano. E infatti quella cubana è stata un’autentica iniziativa diplomatica finalizzata al dialogo, alla comprensione reciproca, non fu mai, nelle intenzioni del papa, un viaggio sul modello di quelli in Polonia. Perché? E’ qui il grande merito di Giovanni Paolo II.  Il suo scontro con la teologia della liberazione avvenne prima, negli anni Ottanta: dapprima frontale, poi mitigato, visto che nell’istruzione del 1984, dopo aver messo in guardia dal fare proprio il metodo marxista, si specifica: “Questo richiamo non deve in alcun modo essere interpretato come una condanna di tutti coloro che vogliono rispondere con generosità e con autentico spirito evangelico alla opzione preferenziale per i poveri”.

Alla fin dei conti quella di Giovanni Paolo II nei Paesi dell’est europeo non fu autentica teologia della liberazione, dalla dittatura imposta dal sistema sovietico, dalla povertà fisica e spirituale? Il cristianesimo non era riconosciuto volano di liberazione? L’America Latina aveva un altro problema, non con Mosca, ma con Washington. Impostando il viaggio cubano Giovanni Paolo II non si ritrasse, come farebbe chi sposi una visione manichea, davanti alle diverse liberazioni che servono all’uomo, argomento che gli era chiaro visto quanto disse a Puebla in precedenza. Dunque un conto era stato il rivolgersi ai teologi, mettendoli in guardia dall’accettare il marxismo come strumento per interpretare la realtà, un altro ai popoli e alle loro esigenze. Ecco il processo, che fece emergere l’incontro con la visione del latino-americano Bergoglio: contrari entrambi a scorciatoie marxiste, ma consapevoli che in luoghi diversi cambia ciò di cui bisogna liberarsi, ma non l’esigenza di liberazione.