Il tema attorno al quale si gioca la partita del governo

Draghi l’americano, dopo la missione alla Casa Bianca il suo atlantismo ormai supera quello delle altre cancellerie europee, ancora una volta ha offerto una lezione di alta politica alla maggioranza, ma pure all’opposizione, che alberga nelle aule parlamentari. E lo ha fatto dimostrando come i giochi da basso impero, messi in atto dal Movimento 5 Stelle, ma in parte anche dalla Lega, siano solo i copioni antichi di vecchie commedie, ormai desuete e fuori luogo. E un po’ come se Draghi fosse dentro ai tempi moderni, volendo essere assolutamente contemporaneo a se stesso, mentre attorno ballano le ombre di ere già superate.

La convocazione a sorpresa del Consiglio dei ministri, irrituale ma non per questo meno priva di peso e sostanza, sta lì a dimostrare come le tensioni in corso, alimentate dalle divergenze dei pentastellati e dei leghisti, non possono essere il sottofondo quotidiano all’azione del governo. Per far girare il Paese serve unità d’intenti e visione strategica, non forzature su alcuni punti (come quella sui Balneari, per esempio) e azioni di disturbo dettate da personalismi, fini a se stesse. In ballo non ci sono solo i fondi del Pnrr, peraltro decisivi per alcuni settori, ma anche la tenuta economica del Paese, stressato dalle oscillazioni dei mercati internazionali. Perdere il treno europeo potrebbe riportare l’Italia indietro di anni.

Sul punto del Decreto Concorrenza, in particolare, Draghi ha chiesto una vera accelerazione sul processo delle riforme, chiedendo a tutti di andare oltre gli steccati alzati in queste settimane. Il premier, insomma, convocando a metà pomeriggio il Consiglio dei ministri, ha voluto guardare in faccia la realtà, consapevole del fatto che, quella stessa realtà, deve cambiare attori e scenografia se il filo del dialogo si spezza. Gli effetti veri di questo Consiglio dei ministri li vedremo nei prossimi giorni, quando ci sarà da svolgere i temi, seguendo i titoli dettati dal premier. Ed è in quel momento che ciascuno degli attori in campo dovrà assumersi le proprie responsabilità.

Eppure basta guardare il calendario, le lancette della storia segnano il giorno 85 della guerra in Ucraina, per capire come siano necessarie parole e liturgie nuove della politica, sia in alto che in basso. Altrimenti rischiamo davvero un corto circuito fra il palazzo e gli elettori, sempre più distanti dal meccanismo dei ricatti elettorali. La marcia verso la pace non può essere mercificata per meri calcoli legati alle urne e alle alleanze, pensando alla legge elettorale che verrà. E’ un costo troppo alto, per tutti.

Draghi, dunque, nell’Aula del Senato ha dedicato il suo primo pensiero alla “resistenza del popolo ucraino”, che ha impedito all’esercito russo di “conquistare vaste aree del Paese in tempi brevi”. Un concetto diretto e netto, per dire (a Conte, Salvini e Berlusconi) che l’Italia ha fatto bene a sostenere Kiev anche con l’invio di armi e che continuerà a farlo. La linea non cambia. Il premier lo scolpisce chiudendo l’informativa, dopo aver ringraziato per l’appoggio il Parlamento, la maggioranza e anche il partito di Giorgia Meloni per il sostegno al governo. La risoluzione approvata il primo marzo “ha guidato in modo chiaro, molto chiaro la posizione del governo” e consentito di “tenere alta la pressione sulla Russia anche attraverso le sanzioni” e, al tempo stesso, di “ricercare la soluzione negoziale“.

E qui Draghi, quasi da grande scacchista, stoppa la speranza di Conte di dare scacco al Re, ma anche di chi, nella Lega e dentro Forza Italia, cerca di convincere Palazzo Chigi a cambiare strategia e interrompere l’invio di aiuti militari. “Il governo continuerà a muoversi nel solco di questa risoluzione“, è la replica del premier a chi, cominciando dall’ex premier e leader del M5S, lo accusa di muoversi in solitudine, privo di un mandato del Parlamento. E proprio per questo è arrivato il chiarimento di Salvini in Aula. “Qualcuno in quest’Aula parla di inviare altre armi, io non ci sto. Noi siamo assolutamente e orgogliosamente ancorati ai valori, ai diritti conquistati in Occidente, stiamo con la democrazia, mai con la guerra ma con i popoli e mai con gli aggressori”. Poi rivolgendosi, a Draghi, il leader della Lega ha ringraziato “per le parole di pace, sia a Washington che oggi in Aula spero condivise da tutti”.

Al di là del sottile filo del dialogo sulla pace, il nodo di fondo resta la posizione sulle armi. Perché è attorno a questo tema che si gioca la partita del governo, e Draghi, mai come ora, da l’impressione di non temere nulla e nessuno. E’ come se avesse metabolizzato, soprattutto dopo la missione a stelle e strisce, i meccanismi perversi dalla politica italiana dove l’interesse di bottega, i voti per i 5 Stelle le richieste del proprio elettorato per la Lega, sopravanzano il bene collettivo. Del resto è da giorni che tutti vanno sostenendo la tesi secondo la quale la maggioranza è sul filo del burrone. Conte ha evocato la crisi di governo e Draghi sta bene attento a non forzare, a non far balenare un quarto decreto sull’invio di armi. Ma sfuggire non può e non vuole e così ricorda che “la risoluzione ha impegnato il governo a sostenere Kiev dal punto di vista militare”.

La linea dunque non cambia ed è quella che Draghi ha illustrato al ritorno da Washington, dopo il bilaterale con il presidente degli Usa nello Studio Ovale: “Per impedire che la crisi umanitaria si aggravi dobbiamo raggiungere prima possibile un cessate il fuoco e far ripartire i negoziati“. E per mettere fine allo scontro interno il capo dell’esecutivo rafforza il concetto. “E’ la posizione dell’Italia, della Ue e che ho condiviso con Biden“. E qui Draghi, senza nascondere l’orgoglio, sottolinea di aver riscontrato alla Casa Bianca e al Congresso degli Stati Uniti “un apprezzamento universale per la solidità della posizione italiana, fermamente ancorata nel campo transatlantico e dell’Unione europea”. Una posizione che consente al nostro Paese e al capo del governo di “essere in prima linea, con credibilità e senza ambiguità, nella ricerca della pace”. Per Draghi non sono parole al vento, anche se la strada verso la pace è un vicolo stretto, ma Draghi intende imboccarlo con determinazione muovendosi con i partner europei e a livello bilaterale “per cercare ogni possibile opportunità di mediazione“.