Se la crescita del Pil americano all’8% non basta a far ripartire l’economia Usa…

All’indomani del via libera all’American Rescue Plan del neo presidente Joe Biden cominciano le scommesse sulle reazioni dell’economia statunitense a questo stimolo monstre di 1.900 miliardi di dollari.

Diciamo che il consensus si diriga verso una cifra importante ma credibile, dopo il calo del 2020 per la crisi pandemica, intorno al 5% che permetterebbe non solo il recupero totale della produttività del paese ma addirittura un incremento significativo rispetto al 2019 ma c’è chi comunichi aspettative ben più elevate come Goldman Sachs Morgan Stanley che arriva a ipotizzare una possibile crescita dell’8% circa.

A tutti gli effetti sarebbe un risultato eccezionale, registrando il tasso di crescita anno su anno più alto da settant’anni a questa parte, però ci potrebbe essere un “ma” gigantesco su questa affermazione.

Chiunque abbia studiato un po’ economia sicuramente ricorda l’identità keynesiana che è il metodo più utilizzato per la determinazione del PIL (anche in USA) ovvero Y = C + G + I + Nx, dove Y è il Pil, C sono i consumi aggregati, G è la spesa pubblica, I gli investimenti e Nx il saldo della bilancia commerciale.

Ammesso e non concesso che a fine 2021 gli USA possano veramente registrare un tasso di crescita simile, facendo due calcoli sui differenziali dei parametri dell’identità qualche dubbio potrebbe effettivamente sorgere sull’opportunità del piano di stimolo di Biden.

Tra trasferimenti a famiglie e imprese e investimenti diretti l’ARP vale circa il 9,8% del Pil 2020 americano e uno stimatore verosimile del deficit della bilancia commerciale può attestarsi intorno al 4,5% del PIL e, di conseguenza, per poter ottenere una crescita così elevata consumi e investimenti, in aggregato, dovrebbero crescere del 2,7%.

Credibile, visto che i tassi di consumo e investimento americani sono tra i più elevati però prima dell’annuncio e dell’approvazione di ARP si stimava una crescita 2021 tra il 4 e il 4,5% è evidente che un programma di stimolo simile abbia avuto un effetto depressivo sulle ipotesi di crescita di consumi e investimenti, anche perché un accredito diretto a ogni cittadino di 1.400 usd fa sì piacere, ma razionalmente fa pensare a un futuro incerto. La cosa spingerebbe a capitalizzare quel denaro in risparmio, magari in forme non sensibili a possibili shock inflattivi come in oro o altri metalli preziosi, magari qualcuno più ardito li convertirà in bitcoin o in altre criptovalute, sperando che l’upside odierno, spinto dall’incertezza, continui anche in futuro, ma certamente non reimmettendoli nel mercato in consumi o investimenti produttivi.

Altra cosa da considerare è che il piano sia completamente finanziato in deficit generando una componente negativa ulteriore che si va a incrementare il debito governativo, che già era cresciuto di oltre il 18% nel corso del 2020 per far fronte alla crisi pandemica.

Al 31/12, infatti, il debito USA rappresentava più del 131% del PIL e la proiezione al 2025 è ancora in crescita di oltre 5 punti percentuali con una crescita, ovviamente, meno sostenuta della PIL e di conseguenza anche del debito anche se sempre più che proporzionale al tasso di crescita del primo parametro.

A questo punto, però, entrano in gioco altri fattori, tra cui la politica monetaria della FED a cui è attribuito il doppio incarico di contenimento dell’inflazione e di massimizzazione dei tassi di occupazione, particolare non banale nel ragionamento, e delle future politiche fiscali atte a non far scattare il fiscal cliff come già si rischiò durante la presidenza di Barak Obama.

Se dal lato fiscale il pensare a una stretta potrebbe essere assai prematuro per non guastare l’effetto previsto degli stimoli economici, dal lato della politica monetaria qualche timore comincia a sollevarsi.

Non è un caso che, nonostante le rassicurazioni di Jerome Powell di non pensare ad alcun intervento sui tassi prima del 2023 e del proseguimento del programma di QE per mantenere un elevato tasso di liquidità sul mercato, alcuni indicatori cominciano a mostrare delle crepe rispetto al clima ottimistico che Casa Bianca e FED vorrebbero stimolare. Questo anche per spingere il trend di riduzione del tasso di disoccupazione che aveva ripreso a crescere con l’inizio della crisi legata alla diffusione della Covid-19 ma che, negli ultimi mesi, ha ripreso a contrarsi.

Seppur vero che un taglio degli stimoli monetari improvviso, come quello operato da Ben Bernanke nel 2013 avrebbe degli effetti negativi sulla ripresa, le dichiarazioni dell’attuale governatore della FED non modificano le aspettative inflazionistiche degli operatori finanziari che cominciano a scommettere su un rialzo dei tassi come si può notare dall’andamento del T-Bond, il decennale americano, oggi ai massimi da 14 mesi a questa parte.

Anche se, in effetti, l’inflazione non sembra riuscire a ripartire, nonostante le continue politiche espansive da parte delle banche centrali di tutto l’occidente e non solo, soprattutto in Europa e, ancor più, in Italia come risulta dall’analisi delle serie storiche degli ultimi anni, perché è evidente che la domanda di liquidità per sostenere le attività produttive e l’occupazione sia, quantomeno, pari al livello di offerta di moneta, una riaccensione della spirale inflattiva non dovuta a una crescita reale del sistema ma come conseguenza agli stimoli monetari potrebbe veramente azzoppare la ripresa, anche se, volendo vedere, in questa maniera anche lo stock di debito pregresso diminuirebbe il peso in termini reali. Questo sia per il debito governativo, sia per i debiti privati. Ma il punto vero resta nella sostenibilità generale di questo nel tempo.

Come già indicato, infatti, il trend di crescita del debito americano sembra, quasi, essersi “italianizzato”, nel senso che ha iniziato a crescere in maniera ben più che proporzionale alla crescita economica del Paese d’oltre oceano e abbia ampiamente superato la soglia del 130% sul PIL; a questo va aggiunto anche un altissimo livello di debito privato, cosa che porta l’aggregato a superare i 250.000 miliardi di dollari, cioè oltre il 1100% del PIL.

Questo livello estremo di indebitamento, ovviamente, è una bomba ad orologeria sulla tenuta del sistema e una crescita all’8% stimata e “drogata” dal piano di stimolo, quindi dall’allargamento della spesa, non è detto che possa bastare a far ripartire, veramente, gli Stati Uniti. Salvo che il piano investimenti previsto sia realmente produttivo e non ideologicamente indirizzato, cosa che diventerebbe un vero volano per la crescita futura ma bisogna aspettare ancora per poter valutare il tutto.