La sconfitta epocale con cui il Belpaese si ritrova a fare i conti

Nel 1974, un’era fa per le stagioni della politica, l’Italia fu attraversata da un lungo fremito determinato dal referendum sul divorzio. In un’epoca di forti passioni civili e grandi tensioni sociali, quel voto segnò una sorta di spartiacque fra una certa Italietta e l’Italia desiderosa di conquistare un posto al sole fra le democrazie evolute. E fu, quel voto referendario, il trampolino per il salto in alto. A distanza di così tanti anni, un mondo è passato e quello nuovo non è ancora arrivato, il Belpaese si ritrova a fare i conti con una sconfitta epocale della politica.

Perché l’affossamento dei referendum sulla giustizia, per la scarsa affluenza ai seggi, tale da non raggiungere il quorum, non è tanto la sconfitta dei quesiti, quanto la dimostrazione plastica dell’incapacità del parlamento, quindi di tutti i partiti, nel maneggiare, anche senza cura, il tema della giustizia. Sia chiaro: non è la prima volta che un referendum in Italia non raggiunge il quorum, ma mai si era visto un dato così basso negli ultimi trent’anni. Peggio delle trivelle del 2016, che registrò un’affluenza del 31 per cento circa. E peggio anche del referendum sulla legge elettorale del 2009, dove andò a votare il 25 per cento degli elettori. Quindi questo è solo il punto più basso, sperando che non diventi il punto di non ritorno.

Nel momento in cui la politica, in particolare una componente forte del centrodestra, chiede agli italiani di pronunciarsi su temi così specifici, su materie altamente tecniche, dimostra tutta la sua incapacità nello svolgere il proprio ruolo. Dunque non ha perso il Paese, e non propriamente vinto la casta dei magistrati, a seconda dei punti di vista, ma ha perso tutta la classe politica, senza distinzione di sorta fra maggioranza e opposizione. Ciascuno dei due schieramenti ha giocato la propria partita, ma senza un vero schema di gioco, sperando solo nella buona sorte e nella sfortuna dell’altro. E questo, nel 2022 non è accettabile. Le democrazie compiute non vanno avanti cosi, seguendo la sorte.

I quesiti erano complessi e i promotori confusi, diciamo la verità. Ed è ancor meno condivisibile l’idea di chi va sostenendo il fallimento dell’istituto referendario, che andrà pure riformato e adeguato ai tempi. Ma il fallimento non sta nel mezzo, quanto nel fine. “Il processo referendario, come la storia ci insegna, è difficile e molto tortuoso: la scelta dei quesiti, la formazione del comitato promotore, il deposito in Cassazione, la raccolta delle firme, il giudizio della Corte Costituzionale, gli spazi televisivi e infine, solo infine, il quorum da superare”, affermano Massimiliano Iervolino, Giulia Crivellini e Igor Boni, segretario, tesoriera e presidente di Radicali Italiani. “In Italia è quasi impossibile promuovere e vincere referendum”.

Dunque occorre sottoporre a tagliando lo strumento popolare. Alla politica tocca, invece, metter mano alla Giustizia, contro la quale sa urlare e strepitare ma mai agire. Una riforma seria del sistema non è solo necessaria ma fondamentale per l’attività del Paese. Ecco, è su questo che opposizione e maggioranza devono lavorare, mettendo da parte rendite di posizione e visioni ideologiche, capaci solo di portare il Paese in un vicolo cieco. E’ evidente come la magistratura faccia il proprio mestiere, autotutelandosi, ma questo non assolve nessuno dalle proprie responsabilità. Ora più che mai serve ristabilire il gioco delle parti, dove ognuno deve svolgere la propria funzione. E chi ha promosso i referendum dovrà comunque fare un grande esame di coscienza, rendendo giustizia agli elettori dei propri errori.