Per non impazzire

Si racconta che, dopo uno dei terribili terremoti che sconvolsero il Giappone nei primi lustri del XX secolo, alcuni lavoratori, tornando dal luogo di lavoro a casa, non trovarono più neanche la loro città, e per questo impazzirono.

Potrebbe essere questo un tragico simbolo del nostro tempo. Infatti l’instabilità, che è di fatto il vero nome di quella che viene celebrata come “libertà”, cioè l’insofferenza di ogni vincolo e di ogni impegno costante, e che forse più di ogni altra cosa caratterizza gli uomini del nostro tempo, favorita dai sempre più accelerati cambiamenti nei modi e negli strumenti dell’esistenza quotidiana, produce, tra le altre cose, il risultato di scardinare ogni stabile punto di riferimento tangibile.

Dal marito che, rientrando dal lavoro, se trova ancora la città e la casa, non trova però più la moglie e, se è fortunato, deve accontentarsi di un biglietto di addio, al bambino che, tornando da scuola, non trova più il papà, ovvero ne trova un altro, o trova due papà o due mamme – o magari tre o quattro in transito – al vecchio che, dopo aver lavorato una vita per “farsi casa”, deve finire i suoi giorni in un istituto per anziani, mentre forse la sua prole rischia di andarsene in mezzo alla strada per un litigio coniugale… non c’è dubbio che abbiamo molti elementi favorevoli allo sviluppo di una pazzia collettiva.

Del resto, le stesse strutture abitative devono adattarsi ai continui cambiamenti, non solo degli inquilini, ma anche dei sempre nuovi ritrovati dell’elettronica. Se un tempo regnava nelle case la televisione familiare, ora gli schermi si moltiplicano per le esigenze dei single che vivono insieme. Ci sarà uno schermo per ogni stanza, ed eventualmente anche nel bagno. E poi bisogna creare lo spazio per i computer, spazio che in seguito potrà essere ristretto, dato che si può usare, come computer, il cellulare – che a sua volta avrà sempre nuove funzioni ed eliminerà altri strumenti ormai inutili. Fortunatamente non c’è più neanche il problema del reciproco disturbo acustico, perché ci sono cuffie e auricolari.

Può essere certamente confortante sapere che, chi vive in un misero appartamento in un agglomerato di cemento, può almeno evadere dallo squallore quotidiano attraverso uno schermo che gli permette di godere la vista del mare e dei monti. Se, però, non ci sono altre prospettive, c’è da temere il rovescio della medaglia: che non si abbia più alcuna cura della propria casa e dalla propria famiglia, tanto c’è il surrogato virtuale! E, del resto, con i contatti elettronici si possono fare amicizie e più che amicizie in ogni modo e luogo. Che cosa contano, al confronto, gli squallidi rapporti giornalieri con i propri noiosi familiari?

Ma poi, quando la famiglia si sfascia e non si ha più una casa sicura, allora tutti i paradisi virtuali e le amicizie e amori online dimostrano il loro vero essere di fantasmi evanescenti. Sembra dunque di poter dire che incomba su di noi l’incubo di case materiali in liquidazione, la cui dissoluzione ci lascia indifferenti, perché la nostra casa è diventata un fatto virtuale, una “casa che non esiste”. Ma quando ci renderemo conto che la nostra casa non esiste, non impazziremo come fecero cent’anni fa i poveri lavoratori giapponesi?

Massimo Lapponi OSB insegna alla facoltà di filosofia presso l’Ateneo Pontificio Sant’Anselmo a Roma

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